Non c’è bisogno di scomodare le
categorie della ragion pratica kantiana, per tentare di biascicare qualche
sedicente fenomeno estetico canottierato.
Anche quest’anno, puntuale come le code
ferragostane, gli spiaggiati e i mondofili infraditati delle apericene, hanno consacrato il loro
inno trionfale. Si scrive trionfale ma si legge automatizzato sfregolamento da
tonnara, eccitata sardineria salmastra,
sculettamento di cellule, celluloide, cellulitico, pappa uniforme, la giusta colonna sonora per le
spensierate serate estive dei laboratores
in cerca di facili distrazioni.
Come le membra delle rane sezionate
guizzano nervose se opportunamente sollecitate, anche il cocktail di uomini
balneari si elettrizza quando attacca il riff dell’ultimo tormentone estivo.
Non importa se hanno il medesimo senso del ritmo di una medusa sul bagnasciuga,
ciò che importa, tanto per abbracciare pure il decoubertiano spirito
olimpico, è partecipare. Aderire ad
ogni superficie, appartenere al banco di a-cefali più cool, tanto per sentirsi, ancora una volta, belli omologati ed
uniti in un uni-versale abbraccio sudaticcio. Quelli bravi lo chiamerebbero flash mob.
Quest’anno il privilegio è toccato alla
sperticata hit “Andiamo a comandare”,
del detatuato “acqua e sapone” Fabio
Rovazzi. Il solo titolo è già tutto un programma. Una bella ironia, se
adeguata al pubblico di “uguaglioni” che ubbidisce persino ai riflessi
incondizionati; a differenza del richiamo animale del branco o dello stormo, l’essere
umano non si ammassa per un immanente istinto di sopravvivenza, bensì per lo
stimolo di occultare la propria singolarità in plattanza e moltitudine. Il testo del tormentone, caro anche al "felpato" Salvini, fa più o meno così: “col
trattore in tangenziale. Andiamo a comandare. Scatto foto col mio cane. Andiamo
a comandare. In ciabatte nel locale. Andiamo a comandare”.
Roba per palati fini, in pentametri
giambici, da cava esistenzialista o esclusivo jazz club.
Ma per fortuna
– sospirano le radio e i circuiti mainstream - la massa maggioritaria non è
composta da boriosi radical chic con la puzza sotto al naso, o da frigidi hipster che
fingono di essere ciò che non saranno mai. La massa desertificata dagli
aborti spontanei della consapevolezza sacrifica ogni estate il nuovo Rovazzi
di turno, ché pascalianamente anela sempre al de-vertimento spersonalizzante. Tutta la loro “rettorica”
scienza del mondo è racchiusa in una semplice equazione quantitativa: accontentarsi
e non avanzare mai pretese scomode per l’allucinogena narcolessi in cui hanno preferito
cacciarsi.
Lo so, il
rapper Rovazzi non è Gaber, Guccini o De Andrè, e non pretende, assieme ai
suoi sodali Fedez e J-Ax, di esserlo, tuttavia i tormentoni estivi di qualche
anno fa, persino quelli più sbracati targati Vianello, sembrano al confronto
lisergiche interpretazioni di un consumato chansonnier.
Abbiamo
sostituito il represso vacanziere fantozziano, che si trastullava con “pinne,
fucile ed occhiali”, coi virgulti bimbiminkia impomatati, depilati e
palestrati, e con qualche secca bambola gonfiabile che aspira. Sono questi rampolli, oggi, a dettare l’agenda
dei costumi e degli edonismi globali, con buona pace del progresso sociale, dell’antropologia
darwiniana e di ogni purulenta sublimità kantiana…
End of atra biliaris.
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