Per lo stato è assolutamente necessario
che nessuno abbia una volontà propria e, se qualcuno dimostra di averla, lo
Stato deve escluderlo; se tutti dimostrassero di averla, essi abolirebbero lo
Stato. (…) chi, per sussistere, deve contare sulla mancanza di volontà degli
altri, è un prodotto mal fatto di questi altri
M. Stirner
Lo Stato,
come lascia sommariamente trasparire lo stesso termine, non è in fondo altro
che l’ennesimo tentativo di rendere statico, fisso ed immutabile, ciò che
appartiene invece ad una condizione di irriducibilità - in fieri-:
la vita stessa nella sua ondivaga ed insopprimibile problematicità
divenente.
E’ l’asfissiante e pachidermica macchina
tecnocratica statale, che pretende di penetrare in ogni ambito privato per
ordinare e legiferare pure nelle pieghe personali dell’intimità, che ha trovato la propria convinta
rappresentazione in Hegel, legittimandosi poi grazie alla Rivoluzione francese,
quella “salvifica” esportata sulla punta delle baionette dal rentier Napoleone.
Eppure quello “stato tentacolare”, “organizzato”, “orwelliano”, non è nato esclusivamente per lo sfizioso autoerotismo di qualche homines lupus in fregola. E' forse germogliato da un'adesione, o meglio, dal favore di tutti quegli "uomini addomesticati” che hanno sempre sentito l'urgenza di barattare la propria “idea di libertà” con l’istinto di sopravvivenza e l’alleviamento di ogni pericolosità. Ogni “stato” sembra così nascere da una mancanza individuale, ché soddisfa il bisogno di occultare nella rassicurante dipendenza la propria inascoltata e latente individualità.
Un po' come la
scienza universalizza ogni "particolarità" per ridurla all’inerme
equivalenza, il potere di questo stato impiccione si è dilatato soprattutto in
ossequio all’illuminante razionalizzazione sua ancella:
l’efficienza, la produttività, il calcolo e lo spirito capitalistico del
massimo profitto, incarnati della spaventevole classe borghese del “terzo
stato”.
Al rozzo, antidemocratico e violento
signore feudale, infatti, non fregava un granché del profitto, era piuttosto approssimativo nel calcolo ed
arbitrario nell’esercizio di un diritto altrettanto volubile. E questo proprio
perché la precisione di un’imposta, così come la certezza del giudizio, sono
dapprima strumenti utili solo per chi vuole conquistarsi una posizione di
potere in cui si sente mancare, mentre lui, “signore di altri uomini”,
possedeva già tutto ciò che necessitava al proprio status apicale. A tal proposito, durante l’epoca preindustriale, è un dato di fatto, si
pagavano meno tasse rispetto all’età post-rivoluzionaria e, cosa ben poco
sorprendente ormai, anche rispetto ad oggi. Massimo Fini riporta questo
“vero volto” della Rivoluzione nel suo “La ragione aveva Torto?”,
ricavandolo dalla risposta che un proprietario dell’Indre, Gabriel Alamore,
diede al proprio affittuario: “ti ho affittato i miei beni nel gennaio 1789,
quando su di essi gravavano diversi diritti signorili. Se non ti avessi
obbligato ad osservarli il mio affitto sarebbe stato maggiore. Quello che deve
approfittare dell’abolizione dei diritti feudali sono io, il proprietario, non
tu, l’affittuario”.
Il “potere”
dell’ancien régime, soprattutto quello molecolare, iper-atomizzato in un
caleidoscopio di unità slacciate tra loro, tipico dell’altomedioevo,
non sentiva alcun bisogno di staticizzarsi in un corpus immutabile,
era anzi, al netto dei faziosi resoconti illuministi e dell’imbarazzo di
qualche storico militante, ben
poca cosa se raffrontato alla monolitica macchina di controllo che andava via
via stringendo le maglie del proprio efficientismo sul popolo. Il potere aristocratico, almeno in
teoria, non trascende mai in un apparato, non incorpora a sé, ma divide e
separa in gerarchie: l’état c’est moi! In tal senso, l’essenziale
per ogni aristocrazia, come ricorda puntualmente Nietzsche: “è che essa non
si avverta come funzione, bensì come senso e come suprema giustificazione”.
Questa verticale noblesse, quindi, non si attua mai in una concretizzazione immota,
essa significa casomai, come peraltro allude l’etimologia, l’apertura verso una
possibilità, “potenziale” appunto. “Poter
agire” e tuttavia accettare, anche contro il proprio interesse contingente, di
non esercitare appieno questo privilegio – non è forse questo che
qualifica ogni uomo che abbia anzitutto il possesso di sé stesso, un individuo
proprietario, la cifra stessa della magnanimità aristocratica -?
Un tipo di uomo siffatto desidera scontrarsi
coi vincoli, li anela per quella tensione che è propria di colui che ne vuole
possedere la responsabilità. Non intende affrancarsi
da ciò che egli è. Indipendente come lo sono tutti gli spiriti che non si
vergognano di quello che sono, non saprebbe cosa farsene della convenuta,
democratica e statuita libertà plebea. La sua è, al contrario, una libertà che
ha una diversa origine, una libertà che non libera ma conquista, rarefatta e
pungente come l’aria di montagna: adesione totale ad una necessità a cui, sola,
si deve obbedienza.
Carlo Magno ad esempio, prototipo
di un mondo feudale frazionato e
polverizzato in un coacervo di enclave, del tutto
anarchico per lingua, usanze, leggi e codici, consuetudini e tradizioni, unità
di misure e grandezze - per cui ci
si comportava alla fine “come pareva e piaceva”, singolarmente, “al di là del bene e del male”-,
tentò di dare al proprio regno un’uniformità che imitasse anzitutto la forma
del sovrano stesso. Per dirla con Nietzsche: “l’uomo di specie nobile
sente se stesso come determinante il valore, non ha bisogno di riscuotere
approvazione, il suo giudizio è “quel che è dannoso per me, è dannoso in se
stesso”, conosce se stesso come quel che unicamente conferisce dignità alle
cose, egli è creatore di valori”.
Lo “stato” in-dividuale del
carolingio, in quanto diretta emanazione del proprio potere patrimoniale, non
gli sarebbe sopravvissuto nonostante i suoi sforzi (la Renovatio Romani
Imperii ed i missi dominici con la scuola palatina
incaricati di dargli una struttura, furono forse soltanto, in quest’ottica, la
sbandata di un’euforia momentanea, o magari l’umano rilassamento verso un
impossibile possesso senza tensione).
Lo “stato non
Stato” di Carlo Magno non si esauriva in
un’espressione geografica compiuta, né tantomeno nella precisione e nel rigore
di un’astrazione fintamente razionale. Uno “stato” che non era mai
completamente immobile, ma mutava e si modificava in un costante gioco di
riflessi: itinerante come lo era la natura del suo “creatore”, ed instabile
come lo può essere qualsiasi uomo bennato. La
“franchezza” e la disinvoltura con cui il carolingio si muoveva tra le
questioni di potere emerge sommariamente anche dalla familiarità con cui
egli considerava l’estensione dei territori conquistati. Non vi erano confini fissamente stabiliti a
tavolino o preventivamente concordati, ché il confine indica anche il rifiuto
di un superamento, la fine di un appannaggio e l’inizio di un’incognita. Come
l’antico retaggio romano da cui deriva la parola, la frontiera del proprio
regno non si misurava con il raggiungimento di un obiettivo (con-fine), né con
la razionaleggiante volontà di definire ciò su cui si è già impressa la propria
orma, ma con l’orizzonte della propria potenza guardato “a testa alta” –
frontiera -, sciente limite di ogni ulteriore potenzialità da saggiare
(il limen).
Più vicino ai
nostri tempi, ma non probabilmente al nostro sentire, anche l’”inattuale” Federico
II di Hohenzollern, sconfitto a più riprese dai nemici,
con Berlino ormai perduta e senza alcuna manifesta possibilità di riscatto,
continua a girovagare col suo esercito per la sua Prussia: lo “stato” non è un territorio statico e
concluso, bensì è il suo esercito di cui egli è il limite e la potenza stessa.
Una concezione del potere e della
sovranità che nulla hanno a che vedere col già corrotto Bodin, né con la
trovata di Stato hegeliana ("sintesi suprema"), ma rassomigliano piuttosto al concetto
individuale, personale, morale, di Unico stirneriano:
“la mia proprietà finisce dove finisce la mia potenza”.
Ad uno “stato
piovra”, stalkerante, assoluto e totalitario, che impone agli uomini
la sua libertà, la sua giustizia e il suo ordine, preferisco la precarietà
di un uomo gravato dai suoi pensieri, ma consapevole che la giustizia e
l’ordine possono svolgersi solo nell’arbitrarietà e tuttavia, macinatosi nel
dubbio e ricurvo per le notti insonni, accetta di prodursi in ciò che più
dispregia: fingere che il proprio arbitrio vada bene per tutti, indistintamente.
Laddove lo Stato moderno trova la propria giustificazione ed il proprio
potere, ovvero nel bisogno di fissare dei confini per autolegittimarsi, l’aristocratico premoderno trova
invece il proprio tramonto.
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