“Neg-otium” dice che il
principio era l’”otium”. Avversarlo così aggressivamente significa forse
sentirne a tal punto il peso da volersi infine distrarre da esso?
C’è un mondo che ripone il proprio senso nelle parole d’ordine. L’ordine infatti, come tutto ciò che viene calato dall’alto, non va pensato. Un ordine non chiede il permesso, né tantomeno l’approvazione, lo si esegue senza tante manfrine. Snell!
Se ci si immerge anche
solo sbadatamente nel delirante chiacchiericcio che, dal bar al parlamento,
satura l’ego di quest’individui “in astinenza da comando”, si potrebbe
blandamente ricavare un grossolano trait
d’union che ne colleghi il borbottio. Non sarà allora difficile inciampare
in una tra le tante parole d’ordine che vanno oggi per la maggiore. E’ il caso
del “fare” in tutte le variegate flessioni che stanno ormai impestando ogni
ambito dell’esistente: il “partito del fare”, la “cultura o la filosofia del
fare”, il “decreto del fare”.
“Avere sempre qualcosa da fare” è oggi la preghiera più in voga per scongiurare la propria greve compagnia, quasi un augurio a non incontrare sé stessi lungo la strada della vita, un’altra virtus dormitiva che marcia speditamente verso l’inautenticità. Anche solo pronunciandola, la parolina magica attrae le lusinghe di chi, volendosi solo compiacere della propria attività, ammicca al “fare” altrui. L’homo faber e la vita activa si sono deformati in uno stato di diritto: l’uomo “fatto”. Una vita “iper-activa” che a furia di fare narcotizza l’uomo nella spersonalizzazione (una vita activa, quella contemporanea, che non c’entra quindi niente con la vita activa dell’umanesimo: un'esistenza coinvolta ed impegnata nelle vicende della polis in virtù di un ideale platonico che si proponeva di ritrovare la dignità dell’uomo nell'idealizzata mondanità -studia humanitatis ).
Tutto ciò che è “positivo” infatti, memore anche di quell’orientamento filosofico che ebbe larga diffusione nel XIX secolo, allude a sfumature di significati quali “preciso”, “certo”, “reale”, “utile” e “concreto”; nella lingua corrente il termine indica anche “colui che ha senso della realtà”, “che è d’immediata utilità”. Convessamente, viene di conseguenza, il pensiero diventa automaticamente “negativo”, un inutile fardello da amputare, mortale ostacolo al principio di realtà: conta ciò che mostri di essere e non ciò che sei!
Lo dice anche quel
bignami tascabile dell’anglomania puritana, quell’uomo fumetto americano – le
aggettivazioni peraltro elidono - di Batman Begins: “non è tanto chi sei, quanto quello che fai, che ti qualifica”. Se
fossimo invece nell’antica Grecia e godessimo del teatro di quel tempo – le
Lenee e le Dionisie Urbane -, quel “fare” oggi così tanto qualificante,
indicando essenzialmente una posizione di bisogno e di privazione, verrebbe
lasciato a coloro che con la necessità hanno sviluppato maggior confidenza: i
meteci e gli schiavi.
L’uomo moderno è viceversa un individuo febbricitante e tarantolato, si agita nell’informe calderone che gli è diventata l’esistenza, con la robotica propensione dell’addetto al controllo qualità: dover fare quantità! Bombardato insistentemente da un pulviscolo di chocs impersonali, da un’inestricabile quantità di esperienze, ha preferito riempire la propria desolazione prendendo casa in un vorticoso maelström, che ormai la velocità e l’abitudine hanno deprivato di ogni vitale gradazione. L’”uomo del fare”, moderno ed “attivo”, non riuscendo così ad assimilare la sproporzione di esperienze che l’esistenza gli antepone, sopperisce a questa difficoltà digestiva con un’iperbolica velocità nel consumare ogni rapporto umano. Ogni esperienza è dunque solo transitoria ed ogni relazione sociale finisce per risolversi esclusivamente nell’instabilità e nella precarietà, per dirla con Nietzsche: “ha insieme fame e colica”. Un uomo che soffre contemporaneamente di bulimia ed anoressia.
L’uomo attivo contemporaneo moderno diventa in tal modo, primariamente, un uomo irrequieto (bramerebbe però alla quiete), che si nutre di questo “metropolitano” sostrato nullificante, come punto di una retta che, infinito, rimane spazio privo di estensione. Una vuota personalità che dall’addizione con altri individui gregari suoi pari ha ottenuto una massa numerica consistente.
Un insipiens, uno zero
quindi, che guadagna il proprio “sapore” attivandosi nella genericità. Come
nota sempre Nietzsche: “essi sono attivi
come funzionari, commercianti, dotti, cioè come esseri generici, non come
uomini affatto determinati, singoli, unici; sotto questo punto di vista sono
pigri. E’ la disgrazia degli attivi, il fatto che la loro attività, sia quasi
sempre un po’ insensata. Non si può ad esempio chiedere, al banchiere che ammucchia
denaro, lo scopo di quella sua incessante attività: essa è insensata. Gli
attivi rotolano come rotola la pietra, con meccanica stupidità”.
A quest'uomo attivo del “tanto per fare”, per quanto si muova, manca tuttavia l’attività superiore: non ha tempo per pensare al motivo del suo agire. O forse, molto più verosimilmente, non vuole soffermarcisi sopra, perché magari, in un afflato di volitività, capirebbe proprio che tutto quel suo sfacchinare ha il solo scopo di sostenere una vacuità innalzata a consolatoria necessità. Il “fare”, oggi, sembra essere diventato il miglior contraccettivo al pensare!
Come per le cimici il senso della luce è l’andarci a sbattere contro, per l’uomo attivo contemporaneo il senso di ogni “fare” è solo il tentativo di spossare ed estenuare, sino a prosciugare, l’inutile attività mentale che potrebbe fargli perdere le proprie certezze ordinanti la fuga dal pensiero.
In fin dei conti,
forse, aveva ragione quel penitente di Wilde: “sono sempre stato dell’opinione che lo sgobbare sia semplicemente un
paravento per chi in realtà non ha assolutamente niente da fare”.
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