La società vive solo di illusioni.
P. Valéry
P. Valéry
Il
mercato sembra essere diventato oggi l’unico indiscutibile ed irrefutabile
termometro dell’umanità. Trascinato dall’insistente intercalare dell’uomo suo
distratto e grossolano artefice, ha finito poi per fondersi indissolubilmente
con esso, mortalmente legatisi in un abbraccio ove ormai è indistinguibile
l’artefice dall’artificio.
Da potenziale strumento al servizio del benessere humani (per la verità solamente di quel
ben-essere quantificabile,
anti-biotico, che mira “calvinisticamente” all’accumulo di specchianti
ricchezze e non invece, come sarebbe logico sospettare, al potenziamento
dell’individuo in quanto “unico” e non “specie”), come Mefistofele, si aspira al
bene praticando costantemente il contrario del desiderato. E così, tutto d’un
fiato, questo mercato è velocemente a-variato in una sorta di Leviatano informe
di cui l’uomo stesso ha ormai perso il controllo, ridotto a comparsa
interessata, ancella che abbisogna del suo costante riferimento per potersi
costituire in quanto “uomo”.
Il
mercato, essendo logica applicata, diventa così, automaticamente, il guru di
quell’umanità che dubita di tutto ciò che non vuole o non riesce a vedere, per
cui la quintessenza si restringe esclusivamente al “veduto”. Peccato che quest’umanità veda esclusivamente ciò di cui ha bisogno... Tutto quel che può essere concreto e
pratico, diventando anche utile e "spendibile", assume quindi, meccanicamente, una
connotazione “positiva”: un individuo senza peso che conosce solo il carico delle sue tasche.
E
così quest’uomo flaccido, abituato a strisciare, diventa persino volentieri
schiavo di colui che, sopra ogni cosa, convalida l’utilità producendo per di più
ciò che gli consente di vivere nella comodità del "visibile": il mercato.
Un mercato che, svuotando mano a mano ogni metafisica, qualsiasi spiritualità, persino ogni autentico, in quanto astratto, logos, ha lasciato spazio solo a ciò che può garantire e valutare ogni “concreta” logica. Per dirla col “positivo” Compte: “L'Amore per principio e l'Ordine per fondamento; il Progresso per fine”. L’auto da fé di un individuo lillipuziano che vuole mettere la testa sotto la sabbia per non vedere fino a che punto si è ridotto, in quale stato ha preferito versare pur di non accettare la vita e sé stesso.
Normando l’imprevedibilità degli eventi, infatti,
questa “positività razionale” si applica nel tentativo di plasmare
artificiosamente la vita, non riuscendo però a privarla del suo naturale ed
insopprimibile movimento divenente e così senza poterla rendere perfetta ed
ordinata, ovvero non-vita. E dunque il mercato è realtà e la
scienza del mondo diventa scienza del mercato, così come il logos suo complice, ricordando
Whitehead, descrive la modalità entro cui l’umanità deve e può (vuole) muovere
la propria indolente esistenza: “la funzione della
Ragione è promuovere l’arte di vivere”. Questa
“evoluta” ars vivendi è sufficiente
per la “morale degli schiavi”.
La superficialità di chi ha “capito sempre tutto”, pur nell’imprevedibile divenire, e vive fiduciosamente “col sole in fronte”; la superficialità di chi non aveva ragione in ciò che faceva ma si trovava a farlo, imbeccato dal monoteismo della beata ignoranza, quella fanfarona di coloro che non hanno potenza del proprio agire e pensiero, ma vivono con sufficienza nell’indicibile paura di poter un giorno perdere anche quel riferimento cardinale. Al mercato si è quindi voluto affidare anche il compito di indicare una qualsivoglia de hominis dignitate, fosse anche quella indegna della rassicurante inconsapevolezza.
Investito e caricato a dismisura di qualificazioni e aspettative ha ormai assunto una vita propria. Orienta ed indica nuovi bisogni – parafrasando Marcuse: la società razional-mercantile ha bisogno del bisogno -, abilita le opinioni, crea ex novo e legifera gerarchie valoriali, le sposta repentinamente, decretando il successo di alcune presunte virtù e la rovina di altre.
A ben vedere non fa altro che riempire una mancanza, ma è un sacco vuoto, un contenitore privo di contenuto che supplisce però a quell’intimo ed irrefrenabile bisogno che affida ad una qualsivoglia alterità il compito di dettare all’”umanità” l’agenda esistenziale da seguire, cosicché essa possa infine giustificare la propria pochezza e guardare da un’altra parte.
Che
il mercato abbia infatti le proprie leggi, i propri assoluti assiomi e
postulati, che sia universale, o meglio che aderisca perfettamente agli schemi
simil-deistici nei quali i rantier intellettuali
hanno voluto imprigionare l’umanità (questo, sia detto pur en passant, per incapacità di profondità, per stolta inettitudine
estetica, per volontà d’illusione, per terrore ontologico verso il reale), pare una speranza più che un oggettivo dato di fatto.
Ma
che uomini sono coloro che vogliono acquietare la realtà, privandosi così di
essa?
Coloro
a cui il reale fa forse paura?
La sensazione che
tale mercato sia paura sublimata in uno schema di finto pensiero è
oggi quantomai palese anche all’osservatore più sbadato. La paura è ciò che ne
muove i flussi commercial-finanziari, unitamente all’immoralità nobilitata
(fai all’altro ciò che non vorresti venisse fatto a te), a tal punto che, se
un autorevole accademico volesse in qualche modo rintracciarvi una legge
fondamentale, dovrebbe ammettere che è proprio quella paura il dominus universale su cui si regge l’illusorio
giocattolo mercantile. Lo sanno tutti che la paura fa guadagnare in borsa!
Il mercato è qui solo l’equivoco che la sedimentazione della “forza” logica ha dato alla luce quale ultima certezza contro il precario e terribile divenire degli eventi.
- “I mercati hanno paura” –, come si affrettano ad informarci i nostri media, significa
infatti una cosa sola: l’uomo teme sopra ogni cosa la vita e si nasconde dietro a
strumenti che s’illude ne limitino la persistenza e la forza (vis–vitae-vir). Un paradigma esistenziale che il goriziano
Michelstaedter, l’unico autentico ed integrale razionalista, a mio gusto, che
il secolo XX abbia conosciuto, narrò lucidamente ne La persuasione e la rettorica con spietata e disarmante chiarezza:
“si son fatti forza della loro debolezza,
poiché su questa comune debolezza speculando hanno creato una sicurezza fatta
di reciproca convenzione. È il regno della rettorica”.
Abbiamo ormai compreso piuttosto bene cosa rappresenti per quest’individuo il mercato: egli non è ancora pronto ad issare la propria vela per perdersi in quel dolce naufragar del volitivo mare, ha ancora bisogno di idola e di finte ebbrezze razionali.
-
Di quante “balle” ha bisogno l’uomo per illudersi di essere felice? - è una
risposta che nessun economista si è ancora posto… e a quanto pare nemmeno
l’umanità. Ma vedrete che a darne risposta sarà il merito del prossimo Nobel
per l’Eco-nomia.
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