Sembra che ci
sia tutto un popolo che fornica con la
retorica e con la gamba ferita del padre della patria Garibaldi, ma forse,
prosciugate le giaculatorie e deposte le
fanfare, è forse giunto persino il momento di spogliarsi del mito, per
indossare, seppur scanzonatamente, i panni di un cinismo meno vanitoso. Contro l’Unità d’Italia è un
curioso libello scritto dall’anarchico francese Pierre-Joseph Proudhon nel 1862.
Uno scritto
agile, nemmeno troppo polemico, ma che i vincitori della storia e i miopi
ultras del tricolore non conoscono, o fingono, poco candidamente, di non
conoscere. Proudhon non si sofferma
tanto sugli eventi storici, contingenti, ormai entrati nell’omerica epica delle
liturgie italiche. Nella fattispecie, si limita ad osservare di come per
prendere la Toscana, la Romagna, la Sicilia e Napoli, valse di più la presenza
dell’esercito piemontese che le raffazzonate camice rosse. Se la prende invece col patriota Mazzini e col suo metodo
cospirazionista, subdolo, carbonaro, che combatte nell’ombra anziché
duellare vis-à-vis con l’avversario. Alle cronache che lascia volentieri
alla voce delle gazzette e agli strombazzi dei lacchè, Proudhon preferisce i
concetti, le considerazioni profonde, sostanziali, quelle che trascendono
l’avvenimento singolo per radicalizzarsi fin dentro la storia. “Il primo effetto della centralizzazione
non sarà che la scomparsa di ogni sorta di carattere indigeno nelle diverse
località di un paese; si crede con questo mezzo di esaltare nella
massa la vita politica, invece la si distrugge nelle sue parti costitutive”.
E’ insolito, a tal proposito, che sia
stato un francese non certo filo-napoleonico, e non invece uno sbracato
canticchiatore dell’inno di Mameli, ad accorgersi del carattere profondo, quasi
immanente, del popolo italico.
Dopo l’unità
d’Italia, continua Proudhon: “ogni località deve tacere, il campanile fare
silenzio (…) perché ogni libertà municipale è confiscata a vantaggio di un
potere superiore, che è quello del Governo”. Quell’Italia fatta di tante indipendenze, da “piccolo
mondo antico”, almeno fino a quando ha avuto coscienza del caleidoscopico
humus comune senza avvertire tuttavia la necessità di dare un nome a quel
sostrato legante le diverse specificità territoriali, è stata un popolo non-popolo, che ha fatto delle diversità di campanile
un patrimonio e una ricchezza di cui adesso sembra persino vergognarsi.
Un amalgama
posticcio, quello preunitario, in cui, paradossalmente, le diversità univano e
non laceravano, benché le frequenti contese di condominio (l’unione non
risponde esclusivamente alla stantia tiritera globale che – uniti è meglio se
si vuol competere nel mondialismo -. Quest’armata Brancaleone ha trovato che
fosse vantaggioso unirsi per ottenere così una dignità in cui si è sentita
mancare nella solitudine dei principati e dell’atomizzazione territoriale). Un
non-popolo anarcoide che si unisce solo durante le partite della Nazionale di
calcio - o, ultimamente, per gridare
la propria appartenenza di bandiera nell’altrettanto sportiva solidarietà ai
Marò -; un’accozzaglia eterogenea di genti per cui l’istituzione con la “i”
maiuscola rimane ancora la famiglia e non lo "stato", la patria
o la nazione; un popolo di “santi” e di “poeti”, ma anche di “nipoti”
e di “cognati”, come scrisse Flaiano; un non-popolo profondamente
contraddittorio e sfuggente, che ha voluto ironicamente chiamare la più
compiuta espressione sociale dell’individualismo col termine di Comune e ha
fatto al contempo della propria storia un melodramma. Quel popolo per cui il “bene comune” coincide spesso col
“proprio bene” - “Franza o
Spagna purché se magna” -, forse esiste ancora tutt’oggi, come
ricorda anche Longanesi - la nostra bandiera nazionale dovrebbe recare
una grande scritta: ho famiglia - ma se ne imbarazza e arretra.
Preferisce, per tornare al racconto di Proudhon “essere assorbito nel potere centrale in tutto ciò che concerne
l’amministrazione, la giustizia, l’esercito, l’insegnamento, i lavori pubblici,
la polizia, i culti”. E così, con la solita scanzonata distrazione, l’italiano
sembra aver trovato proprio nello Stato,
quel “gelido mostro”, per dirla con
Nietzsche, un padrone migliore dei tanti padroni che hanno fatto il bello e il
cattivo tempo sulla penisola “dei limoni”
di goethiana memoria, lo stesso Goethe che ebbe a dire del Belpaese: “onestà tedesca ovunque cercherai invano, c’è vita e animazione qui, ma
non ordine e disciplina; ognuno pensa per sé, è vano, dell’altro diffida, e i
capi dello Stato, pure loro, pensano solo per sé” (Azzeccagarbugli può esistere solo nei bizantinismi italici: perché
non ci siano leggi ne abbiamo fatte milioni. E anche il gattopardesco Conte di Salina ricalca una certa quintessenza
tricolore: cambio, riformo ogni cosa, perché infine non cambi mai nulla).
Meglio allora omologarsi, fare massa, piegandosi alle
messianiche astrazioni che resistono alla praticità del nuovo status quo statalizzato, poi
sovrastrutturale, comunque accentratore ed efficiente: diventare tutti uguali
per nascondere le diversità, le culture, le tradizioni, gli usi e i costumi. Fusione,
come la chiama ancora Proudhon: “l’assorbimento delle nazionalità individuali
in cui vivono e si distinguono i cittadini in seno a una nazionalità astratta
in cui non si respira, né ci si riconosce più”. E fintanto che non ci si
vergognava ancora di quell’ancestrale singolarità fisiologica e si aveva ancora
voglia di vedere il proprio riflesso nello specchio delle individualità e dei
provincialismi, come osservò il romantico libertario Lord Byron agli inizi
dell’Ottocento sull’Italia: “non c’è legge e non c’è governo ed è
meraviglioso quanto le cose funzionino bene”.
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