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venerdì 5 agosto 2016

Proudhon, contro l’Unità d’Italia

Sembra che ci sia tutto un popolo che fornica con la retorica e con la gamba ferita del padre della patria Garibaldi, ma forse, prosciugate le  giaculatorie e deposte le fanfare, è forse giunto persino il momento di spogliarsi del mito, per indossare, seppur scanzonatamente, i panni di un cinismo meno vanitoso. Contro l’Unità d’Italia è un curioso libello scritto dall’anarchico francese Pierre-Joseph Proudhon nel 1862.

Uno scritto agile, nemmeno troppo polemico, ma che i vincitori della storia e i miopi ultras del tricolore non conoscono, o fingono, poco candidamente, di non conoscere. Proudhon non si sofferma tanto sugli eventi storici, contingenti, ormai entrati nell’omerica epica delle liturgie italiche. Nella fattispecie, si limita ad osservare di come per prendere la Toscana, la Romagna, la Sicilia e Napoli, valse di più la presenza dell’esercito piemontese che le raffazzonate camice rosse. Se la prende invece col patriota Mazzini e col suo metodo cospirazionista, subdolo, carbonaro, che combatte nell’ombra anziché duellare vis-à-vis con l’avversario. Alle cronache che lascia volentieri alla voce delle gazzette e agli strombazzi dei lacchè, Proudhon preferisce i concetti, le considerazioni profonde, sostanziali, quelle che trascendono l’avvenimento singolo per radicalizzarsi fin dentro la storia. “Il primo effetto della centralizzazione non sarà che la scomparsa di ogni sorta di carattere indigeno nelle diverse località di un paese; si crede con questo mezzo di esaltare nella massa la vita politica, invece la si distrugge nelle sue parti costitutive”. E’ insolito, a tal proposito, che sia stato un francese non certo filo-napoleonico, e non invece uno sbracato canticchiatore dell’inno di Mameli, ad accorgersi del carattere profondo, quasi immanente, del popolo italico.

patria italia

Dopo l’unità d’Italia, continua Proudhon: “ogni località deve tacere, il campanile fare silenzio (…) perché ogni libertà municipale è confiscata a vantaggio di un potere superiore, che è quello del Governo”. Quell’Italia fatta di tante indipendenze, da “piccolo mondo antico”, almeno fino a quando ha avuto coscienza del caleidoscopico humus comune senza avvertire tuttavia la necessità di dare un nome a quel sostrato legante le diverse specificità territoriali, è stata un popolo non-popolo, che ha fatto delle diversità di campanile un patrimonio e una ricchezza di cui adesso sembra persino vergognarsi.
Un amalgama posticcio, quello preunitario, in cui, paradossalmente, le diversità univano e non laceravano, benché le frequenti contese di condominio (l’unione non risponde esclusivamente alla stantia tiritera globale che – uniti è meglio se si vuol competere nel mondialismo -. Quest’armata Brancaleone ha trovato che fosse vantaggioso unirsi per ottenere così una dignità in cui si è sentita mancare nella solitudine dei principati e dell’atomizzazione territoriale). Un non-popolo anarcoide che si unisce solo durante le partite della Nazionale di calcio - o, ultimamente, per gridare la propria appartenenza di bandiera nell’altrettanto sportiva solidarietà ai Marò -; un’accozzaglia eterogenea di genti per cui l’istituzione con la “i” maiuscola rimane ancora la famiglia e non lo "stato", la patria o la nazione; un popolo di “santi” e di “poeti”, ma anche di “nipoti” e di “cognati”, come scrisse Flaiano; un non-popolo profondamente contraddittorio e sfuggente, che ha voluto ironicamente chiamare la più compiuta espressione sociale dell’individualismo col termine di Comune e ha fatto al contempo della propria storia un melodramma. Quel popolo per cui il “bene comune” coincide spesso col “proprio bene” - “Franza o Spagna purché se magna” -, forse esiste ancora tutt’oggi, come ricorda anche Longanesi - la nostra bandiera nazionale dovrebbe recare una grande scritta: ho famiglia - ma se ne imbarazza e arretra.

Preferisce, per tornare al racconto di Proudhonessere assorbito nel potere centrale in tutto ciò che concerne l’amministrazione, la giustizia, l’esercito, l’insegnamento, i lavori pubblici, la polizia, i culti”. E così, con la solita scanzonata distrazione, l’italiano sembra aver trovato proprio nello Stato, quel “gelido mostro”, per dirla con Nietzsche, un padrone migliore dei tanti padroni che hanno fatto il bello e il cattivo tempo sulla penisola “dei limoni” di goethiana memoria, lo stesso Goethe che ebbe a dire del Belpaese: onestà tedesca ovunque cercherai invano, c’è vita e animazione qui, ma non ordine e disciplina; ognuno pensa per sé, è vano, dell’altro diffida, e i capi dello Stato, pure loro, pensano solo per sé” (Azzeccagarbugli può esistere solo nei bizantinismi italici: perché non ci siano leggi ne abbiamo fatte milioni. E anche il gattopardesco Conte di Salina ricalca una certa quintessenza tricolore: cambio, riformo ogni cosa, perché infine non cambi mai nulla).

Meglio allora omologarsi, fare massa, piegandosi alle messianiche astrazioni che resistono alla praticità del nuovo status quo statalizzato, poi sovrastrutturale, comunque accentratore ed efficiente: diventare tutti uguali per nascondere le diversità, le culture, le tradizioni, gli usi e i costumi. Fusione, come la chiama ancora Proudhon: “l’assorbimento delle nazionalità individuali in cui vivono e si distinguono i cittadini in seno a una nazionalità astratta in cui non si respira, né ci si riconosce più”. E fintanto che non ci si vergognava ancora di quell’ancestrale singolarità fisiologica e si aveva ancora voglia di vedere il proprio riflesso nello specchio delle individualità e dei provincialismi, come osservò il romantico libertario Lord Byron agli inizi dell’Ottocento sull’Italia: non c’è legge e non c’è governo ed è meraviglioso quanto le cose funzionino bene”.

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