Tra medioevo e rinascimento, scrive
Huizinga, l’uomo trovava nella terra “lo
schema con cui misurare la vita e il mondo”. Oggi, dopo gli “stupefacenti” progressi in ogni campo razionale, quella
misura ci viene invece suggerita dal dato, dalla statistica, dall’Istat che di
quei simulacri è l’indiscussa cattedrale. Lo sa bene, tra gli altri, anche
il prestidigitatore Matteo Renzi che, dopo le poco lusinghiere
previsioni sulla crescita del Pil nel
2015, può finalmente bullarsi sui social network dei risultati raggiunti.
L’Istat, infatti, pur confermando la
crescita ipotizzata dello 0,7%, ammette che a quel dato vanno però aggiunti 3 giorni lavorativi in più,
quantificati in un più 0,1% (se 3 giorni producono un aumento di 0,1% sul Pil,
le ipotesi sembrano essere solo due: o in Italia si cresce del 20% annuo ma
nessuno ce lo dice, oppure in quei tre giorni si è celebrato un colossale colpo
di culo. Roba che manco la Cina dei tempi migliori…). Molto più verosimilmente, l’Istat sembra essere andata incontro alla
vanità del piacione Renzi, avvicinandosi così alle stime di crescita
pronosticate a suo tempo dal Governo (lo 0,9%, ma prima l’%, e prima ancora,
con l’anno nuovo interamente davanti, persino l’1,2%!... il solito “dare i
numeri”).
Tralasciando
il sostanziale dato che l’Italia sta comunque crescendo meno rispetto a
qualsiasi altro Stato europeo, e che la crescita appena iniziata si sta
già, progressivamente, esaurendo, i dati schizofrenici
dell’Istat dovrebbero suggerirci anche un paio di considerazioni di metodo (ah, restando sempre in tema di metodo:
quali sono gli effetti e i numeri dell’emersione del nero, della prostituzione e del contrabbando? Quanto valgono queste grandezze,
introdotte circa un anno fa, sul Pil? Mistero della fede).
La prima: il Direttore dell’Istat viene nominato dal Governo e in tal senso
potrebbe almeno venire il sospetto che non voglia deludere le aspettative del
proprio datore di lavoro. La seconda considerazione, invece, pertiene ad un
aspetto ancor più sostanziale ed allarmante: i dati, la scienza, o la technè
più in generale se si preferisce, non sono affatto cose serie quando impiegati per
spiegare cose umane, incapaci, come sono, d’imprigionare in un’istantanea
numerica la realtà che ci circonda. Scopriamo così, grazie all’Istat, che
anche la matematica è un’opinione!
Che anche le perizie logiche siano arbitrarie sinestesie retoriche e “versificazioni”
dell’eco-nomos, che tutto ciò che vorrebbe
ammantarsi di un’aura oggettiva è, in definitiva, partorito e maturato a
partire da un soggetto che sente, osserva e pensa.
Eppure oggi, in ossequio alla dea
scienza, si può dire tutto e contemporaneamente il contrario di tutto, ma
sempre scientifica-mente! Si possono, ad esempio, risistemare alla bisogna i
dati per far tornare infine i conti (i
professionisti della scienza e della tecnica sembrano infatti periti di parte:
difendono esclusivamente sé stessi e il proprio operato!).
In realtà non è una novità che il numero
e la tecnica siano strumenti insufficienti per com-prendere la realtà, la physis, la natura. Ippaso di Metaponto, più di cinquecento anni prima di Cristo, fu
cacciato (per alcuni fu assassinato) dalla comunità pitagorica proprio
perché divulgò che vi erano grandezze “incommensurabili” e “irrazionali” che
sfuggivano al sacro e perfetto ordine numerico di quei filosofi. Il dato è un’opinione che però dà
l’illusione divina di essere assoluta-mente giusta, a-problematica, certa,
rassicurante e assodata. Un participio passato: “dato”.
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