Per competenza
e professionalità, oggi, s’intende soprattutto quella spersonalizzante
capacità di saper utilizzare “strumenti”
(organi alieni all’individuo che li
usa, ma che ne sostanziano tuttavia la dignità umana). Non contano più, quindi, le persone, bensì la mole di strumenti che quegli
stessi individui riescono ad utilizzare.
L’uomo macchina, ingranaggio del
sistema produttivo, al completamento della metamorfosi contemporanea, diventa
finalmente oggetto passivo, buco da colmare, kafkiano servo: l’uomo delle macchine, gracile automa,
mezzo utile al produttivo funzionamento di macchine che lo trascendono in
quanto umano.
D’altronde è il mercato del lavoro che ce lo impone! Lo chiese anche Berlusconi, lo chiedono i decaloghi imprenditoriali più “vincenti” ed alla moda, lo suggerisce velatamente pure Renzi anche oggi, per non parlare del “Ministro degli strumenti”, Poletti: imparare le tre “i” – informatica, inglese, impresa – come rinnovata ontologia e religione umana.
D’altronde è il mercato del lavoro che ce lo impone! Lo chiese anche Berlusconi, lo chiedono i decaloghi imprenditoriali più “vincenti” ed alla moda, lo suggerisce velatamente pure Renzi anche oggi, per non parlare del “Ministro degli strumenti”, Poletti: imparare le tre “i” – informatica, inglese, impresa – come rinnovata ontologia e religione umana.
Se le guardiamo da vicino, informatica e
inglese, soprattutto nelle loro declinazioni mondane, “volgari”, nascondono la
stessa strumentale voglia di occultarsi nella comunicazione. L’informatica e l’inglese servono infatti
quasi esclusivamente per comunicare, informare meglio, più velocemente,
allargando ad un numero sempre maggiore di persone la condivisione del proprio
messaggio. E proprio in questa “comunicazione” sta tutta l’ontologia della
contemporaneità “liquida” di oggi. Testimoniare
una presenza, comunicare, dire senza avere tuttavia nulla da dire e da
comunicare. Il comunicare per il comunicare, a prescindere. Ma così facendo, mancano proprio i
contenuti della comunicazione. Essa si riduce, quando va bene, esclusivamente
ad azione, a gesto estemporaneo, automatico, ad un riflesso involontario.
Per l’inglese, la lingua delle lingue, internazionale, il latino dei
coevi democratici sociali, le conseguenze sono ancora più evidenti. E' bizzarro, ma l’uomo della strada, forse per ignoranza patita o forse
semplicemente per adeguarsi ai giudizi dei “bomba” di ogni colore e
schieramento, considera il “sapere le
lingue” quasi come un master esistenziale: la dimostrazione plastica dell’intelligenza, la cifra della stessa
cultura personale. E forse avrebbero persino ragione, se non fosse che oggi
quelle lingue servono solo per il commercio e non, come sarebbe invece logico
sospettare, quale volano, autentico “organo”
per conoscere in profondità la cultura di un popolo “diverso”. Ma chi sa le lingue, spesso, le sa
esclusivamente per mestiere, e sa, oltretutto, una lingua non lingua,
commerciale, semplificata ed appiattita alle esigenze della compravendita
mercantile. Ancora una volta portatore sano di strumenti e strumento a sua
volta: parla tante lingue, ma non ha nulla da comunicare.
Perché
imparare allora le lingue? Per trovare un’occupazione, per ordinare una birra in
un pub londinese o in un bistrot parigino, con la stessa facilità con cui lo si
fa nella madrepatria.
Qualche tempo fa, Nietzsche diceva che “i popoli che hanno prodotto i maggiori
stilisti, Greci e Francesi, non imparavano le lingue”, ma oggi non ci sono
più popoli. Ci sono invece mercati e
consumatori anonimi che vogliono allacciare rapporti tra loro, sempre più
stretti ed efficienti, per compiacersi poi degli strumenti a cui sono stati
ammaestrati.
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