Il mondo sembra essere in preda ad una
nevrosi collettiva. Dai tecnocrati
dietro le quinte che tutto governano, fino ai più modesti bar di
provincia, pare che gli uomini abbiano totalmente perso la bussola. In questa
dimensione parallela in cui il caos si riprende la giusta rivincita sulla logica deterministica, gl’individui, schizofrenici simulacri in balia degli eventi,
non sanno più nemmeno mettere d’accordo loro stessi quando vengono chiamati a
dare un giudizio sul rapporto che mantengono col mondo.
E così, superficialmente, posti di
fronte al più grande cambiamento degli ultimi decenni, non riescono neanche a
capire se la globalizzazione sia
effettivamente un bene, come le suorine liberiste hanno sempre spiegato loro, o
se sia invece una piaga biblica.
Dal 1994, data di nascita del Wto (World Trade Organization) e anno
delle morte del Gatt, le merci possono
circolare in lungo e in largo per il mondo senza nessuna restrizione e vincolo.
Nasce
il mondialismo dei consumatori, ad ogni latitudine,
dall’Occidente “progredito”, passando per la Russia post caduta del muro, sino
ai nuovi mercati emergenti. Nessuno è escluso, anche i paesi “poveri”,
quelli del terzo e del quarto mondo, possono andar bene se utili a piazzare
qualche prodotto (o per scaricare gli effetti inquinanti, distruttivi, e anche inflazionistici,
sui paesi di serie B).
Rispondendo esclusivamente alle subdole
logiche del mercato globale, le merci, da quel momento in avanti, possono
quindi girare indisturbate per andare a trovare la propria collocazione sul
mercato in cui riescono a strappare il prezzo migliore (da qui le insanabili
contraddizioni, con buona pace anche del baraccone Expo milanese, per cui c’è chi, sfortunatamente, fa la
fame, e chi invece può sprecare cibo rimpinguando i cassonetti dell’immondizia).
La globalizzazione economica e la
totalizzazione del mondo, quella “realtà
unica” tanto ambita dalla domestica
Popper, si completa così nel dicembre del 2001, quando anche la “rossa” Cina
entra finalmente a far parte del club Wto. Battezzata
dal giubilo di Prodi, dai laburisti e dai democratici “Clinton” mondiali, ogni
barriera alla libera circolazione delle merci si dissolve definitivamente e i
mercati possono finalmente essere colonizzati, invasi da orde di prodotti senza
alcuna regola o restrizione (Prodi, a tal proposito, disse che l’Italia sarebbe
diventata una specie di “portaerei” per le merci cinesi, dimostrando, se non altro,
una scarsissima capacità di giudizio).
E’ il trionfo incontrastato del capitalismo senza freni, globale, la
fine del percorso, per dirla con Latouche, sulla “strada
della scomparsa di ogni limite”.
Ma non è tutto oro ciò che luccica: da
questo epilogo iper-liberista sono infatti germogliate, benché blandamente,
anche contraddizioni insanabili.
Gli stessi che osannano il trionfo del liberismo deregolato e la “fine del mondo” nel pensiero unico,
infatti, non possono allo stesso tempo essere anche contrari all’immigrazione.
E’ l’altra faccia della stessa medaglia “mercantile”.
E
non possono nemmeno, come la Germania e l’Europa si ostinano a dire, fare
differenze tra “profughi” che scappano dalla guerra e dalle barbarie, ed
immigrati economici che fuggono dalla fame, dai cambiamenti climatici e dalla
miseria (che della globalizzazione wild sono dirette conseguenze).
L’immigrazione,
infatti, non è altro che la logica conseguenza della stessa imperante
globalizzazione economica, solo che a spostarsi non sono merci e prodotti,
bensì persone in carne ed ossa: l’Occidente, per mantenere alto il proprio
livello di benessere ha, fisiologicamente, bisogno di sfruttare le risorse, la
manodopera e i mercati di quei popoli che, pur facendo parte del consesso
globale, non hanno santi in quell’assemblea.
Insomma,
non si può pretendere che le merci e gli oggetti circolino liberamente per il
globo e allo stesso tempo negare quel privilegio alle persone.
A meno che non si creda davvero che le merci abbiano più diritti delle persone… che gli oggetti, vero feticcio
dell’edonista uomo contemporaneo, non siano più importanti degli individui. Alla
fin fine, checché ne pensi la massaia o il faticatore su più turni, i boat people e le emigrazioni sono solo
l’effetto del nostro irragionevole benessere e della protervia occidentali. Non
ci si può stupire ora, se ci stanno rendendo la pariglia come possono.
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