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mercoledì 23 luglio 2014

Divagazioni su Nietzsche e “idee moderne”: un'introduzione

Un’introduzione

Ma solo l’uomo è a sé pesante da portare! E ciò perché trascina sulle spalle troppe cose estranee. Come il cammello, si inginocchia e si lascia ben caricare.
F. W. Nietzsche

Qualche volontà poco pugnace storcerà probabilmente il naso. Per costoro, d'altronde, la polemica sembra essere “buona” solo se è costruttiva. In realtà, come Eraclito sapeva più di un paio di millenni fa, essa è del tutto neutra. Il polemos infatti, a prescindere da qualsiasi necessità che voglia trovare dietro ad ogni parvenza un valore para-morale solo per trascendersi in umanità, è semplicemente “il padre di tutte le cose”, una sorta di àpeiron anassimadreo, un indefinito da cui tutto nasce.

Come un informe e grezzo blocco di pietra si lascia scavare, così anche la realtà va “tolta” dal proprio sfondo, quasi fosse una scultura fatta di depositi e di sedimentazioni, incrostazioni e riflussi, va fatta propria. 
Il modus vivendi dello scultore volitivo, come peraltro anche il metodo “scientifico” di Bacone, prevede così una primaria pars destruens. Sente di dover iniziare il proprio percorso da sé, per ritemprarsi ed indurirsi in modo tale da non lasciarsi frantumare dall'urto con quella realtà deforme. Una “vis” polemica, fosse anche solo per il piacere sofista della pugna, che alleni primariamente il “gusto” estetico-morale a divenire proprio (sapio=ho sapore=so), creandosi da sé le proprie preferenze.

La polemica quindi come tensione continua a crescer-si, ad abituarsi al giudizio, al "pathos della distanza", a farsi uomini "duri", ovvero “unità di misura”. E solo quell’uomo sa, quanto a quel punto sia necessario per rimanere pienamente tale, fare tabula rasa di tutti quegli idola ed articoli di fede che, al contrario, l’”uomo costruttivo” ha, più o meno scientemente, costituito al fine di ovattarsi sempre più nei rassicuranti e suadenti preservativi anti-biotici (un uomo che vorrebbe fare all’amore con la vita senza però venire mai veramente a contatto con essa!). Questo "scultore" dice di no ad una dimensione che non sente sua, distruggendone le ipocrisie e "togliendone" le inautenticità. Eppure egli non è esclusivamente un uomo della negazione, un uomo "contro". Dicendo di no a quel mondo afferma tuttavia sé stesso. Scava, svuota e martella perché la sua opera possa, faticosamente, farsi largo tra le prigioni edificate proprio da quegli idoli, e solo in questa tormentata opera di "emersione", quasi come gli Schiavi di Michelangelo, trova l'autenticità di un’essenza altrimenti impossibile. La sua. Un candore mai veramente tale, a dire il vero, che sfugge continuamente alla brama di possesso come il Sisifo camusiano. Una libertà che necessita ineluttabilmente, per essere davvero tale, di tornare sempre a sporcarsi le mani con la vita.

Ma laddove lo scultore toglie per cercare un pallido brandello di sé, taluni vorrebbero invece trovare la Verità assoluta, aggiungendo prigioni alle prigioni, affinché quella cella artificiale prenda progressivamente le sembianze di un’illusione persuasiva, reale, “vera”. Quali sono dunque queste rassicuranti costruzioni, questi “articoli di fede” che nascondono a sé stesso l’uomo e la vita, fornendogli ciò di cui la sua noluntas ha più bisogno - un rifugio sterile e sicuro in cui rifuggire la terribile verità che è per taluni l’esistenza -?
Guardandolo da vicino, si potrebbe persino sospettare che vi sia in quest’uomo una paura che trascende tutte le altre, un pervertimento ontologico. La terribile inquietudine di scoprire che la propria esistenza non possegga alcun “senso”, che quegli ideali che ne consigliavano la direzione e a cui si è devotamente votato non valgano più niente, che l’esistenza stessa sia qualcosa da cui tutelarsi, nociva come lo sono tutte quelle opportunità che liberano l’uomo dalle proprie protezioni. 

Verrebbe addirittura da chiedersi se quella stessa verità che taluni hanno posto alla base di ogni presunta “liberazione” non sia solo l’ennesimo “idolo” escogitato ancora una volta per astrarsi da una realtà che fa paura, inquietando l’uomo come l’eterno caos che la qualifica. E’ bizzarro, ma la parola greca chaos, poiché connessa al verbo chaskõ, che significa “sto aperto”, “spalancato”, indica anche uno spazio illimitato, un’apertura sconfinata. Nietzsche, da attento filologo, pare rivelarcelo: “chi guarda in se stesso come un immenso universo e porta in sé le sue vie lattee, sa anche quanto irregolari siano tutte le vie lattee; esse conducono fino nel caos e nel labirinto dell’esistenza”. Il caos quindi come ambiente scultoreo. Non più esclusivamente, come qualche uomo d’ordine ha sempre paventato, l’idea anarchica prodotta dalla mancanza di ordine, bensì un valore, un’opportunità che si apre esclusivamente a colui che "sappia" volitivamente rinunciare ad ogni ideologia. Per scoprire infine sé stesso. Ma questa umanità non sembra ancora pronta per emanciparsi da quei principi che le consentono la sopravvivenza: “la condizione di esistenza dei buoni è la menzogna: in altri termini, il non voler vedere a ogni costo come in fondo è fatta la realtà”.

Liberata dalle illusorie difese poste a salvaguardia della sua esanime esistenza, abbandonata da ogni “certezza”, essa probabilmente non troverebbe più un “senso” da inseguire, un “fine” da raggiungere, un motivo per continuare ad esistere. In questo breve excursus "a puntate" di “vago” sapore nietzscheano, tenteremo di mostrare sommariamente, attraverso alcuni significativi esempi, quali siano questi “schermi” dietro ai quali l’uomo nasconde sé stesso per continuare bellamente a darsela a bere, per non accorgersi infine della propria inadeguatezza; questo Matrix imperante; questi meccanizzati Tempi Moderni; queste “morali d’armento”; queste “idee moderne”, mortali difese contro le infezioni della vita.


La logica.

L'uomo del gregge umano.

Il cristianesimo.

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