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mercoledì 12 febbraio 2014

Debito e ricchezza dell'Italia e della Germania


C’è chi vorrebbe sottoporre l’Italia alle stucchevoli tradizioni americaniote dell’inno a colazione e degli svolazzamenti di bandiere, altri ammirano invece l’unità di spirito del popolo francese, corroborata, dicono alcuni, anche dalle ambigue vicende della Rivoluzione (dimenticandosi la Bretagna, la Vandea e la Corsica) o il senso, quasi morale, dell’onestà e del doverismo teutonici.
In tal senso però, ha probabilmente ragione Philippe Daverio quando ammette che gl’italiani sono il popolo del melodramma. Surreali ed inverosimili come le pellicole di Fellini, ma al contempo così desiderosi di trovare una parte netta, una macchietta manichea su cui posare la propria sfuggevole contraddittorietà per darle infine un senso, o un nobile valore condiviso su cui far riposare la propria fisiologica individualità: quella tanto vituperata che ha però il merito di trascendere ogni qualsivoglia artificiale senso civico, per ricondurre ogni “buona socialità” alla propria coscienza (gli unici che travestono il roussoiano amor sui in amor proprio, mentre altri popoli preferiscono il contrario).

Il tedesco, nella fattispecie, attraverso l’ormai onnipresente figura della Bundesbank, non capisce, forse perché culturalmente incapace di comprendere la stravaganza del genio italico (ci hanno provato per più di un millennio, già prima della dinastia degli ottonidi) come gli italiani possano continuare a dormire sonni tranquilli pur avendo un debito pubblico che sfonda la soglia del 130% del Pil. 
E così si vocifera insistentemente di un prelievo forzoso sui conti correnti dei privati quale possibile contromisura per far rientrare quel debito. Le parole, in tal caso, sembrano già essere sufficientemente chiare: nel tedesco la parola debito (schuld), significa anche colpa.

La tiritera BCE/FMI/Banca mondiale, dimenticando Montesquieu e ancor più Braudel, non riesce proprio a comprendere quel sottile filo conduttore che sottende ad ogni “luogo” e “popolo”, e arranca, facendo peraltro figure barbine ad ogni comparsata, ostinandosi a lanciare appelli che l’italianità integrale non potrebbe mai capire nel suo atavico disinteresse per ciò che antepone il pubblico all’individuale. Se i tedeschi avessero un debito pubblico vicino a quello che possiamo vantare noi, e le nostre disponibilità private, se lo comprerebbero subito. Per loro lo Stato è il popolo, una sorta di famiglia allargata che forse poggia i propri convincimenti sociali, tradendone magari il metodo, in quella fara longobarda o in quelle trustis franche che fuoriescono delle nebbie del medioevo più remoto. Uno Stato al servizio del popolo quello, che ne assiste le necessità e provvede ai suoi bisogni, ma che poi diventa il senso del popolo stesso. 

Uno Stato che assicura le condizioni di sviluppo del cittadino, ma che è fallito tre volte nell’arco del solo Novecento. L’Italiano, meno credulone e più furbo in questo, come i personaggi della commedia dell’arte che sembrano nella fattispecie qualificarlo, sa invece, a differenza del tedesco, che lo Stato è una cosa a sé, un’invenzione creata. Per l’italico prima viene l’individuo, anzi sé stesso (il Comune, evidenziando un’inarrivabile certa ironia, ne è forse l’espressione giuridico-sociale più compiuta). E infatti il giovane Stato italiano non ha mai dichiarato bancarotta, ché la sacralità dei denari prestatigli dagli italiani è intangibile sino a partire dal Trecento.
In tal senso, per comprendere le radici di questa diversa mentalità nei rapporti tra Stati e individui, è prezioso l'aneddoto sul fallimento della più importante famiglia di banchieri del Cinquecento. I Függer di Augusta, creditori del re di Spagna Filippo II, non ressero la sua bancarotta: impreparati di fronte al “default” dello “stato” spagnolo, vennero sostituiti dal Banco di S. Giorgio di Genova che, nonostante le successive tante bancarotte non fallì mai: fallisce lo Stato, non loro (a garanzia si fanno dare gli interessi sulle miniere e sull’argento d’oltreoceano). 
italianità

Come oggi, la logica del mercato finanziario, parla italiano...
Goethe, uno dei tanti tedeschi folgorati da quel Drang nach Süden che portò nel “paese dei limoni” un nugolo di nordeuropei in cerca di quello “spirito mediterraneo” tanto bramato, fu forse uno dei pochi, tra loro, a descrivere le precondizioni di quelle particolarità tutte italiane, quelle di cui i novelli cultori dell’Italia unita vorrebbero forse disfarsi: “l’onestà tedesca la cercherai invano in ogni angolo. Qui c’è vita e movimento, ma nessun ordine e disciplina. Ognuno pensa solo a se stesso, è vanitoso (il vero presupposto al made in Italy), diffida degli altri. E anche i padroni dello Stato si curano solo dei propri interessi”. All’italiano non frega assolutamente niente del rapporto debito/pil, frega semmai del proprio debito personale (sommando infatti il debito pubblico a quello privato scopriamo che quello italiano ammonta al 220% del pil, negli Stati Uniti è del 375%... scopriamo addirittura che in classifica ci posizioniamo meglio di Giappone, Belgio, Olanda, Spagna, Regno Unito e Francia, e che anche la tanto decantata Germania ha fatto passi avanti in quel rapporto solo nell’ultimo decennio). 

Chissà come risponderebbe l’onnipresente mercato se, alla fine delle proprie convulsioni, scoprisse che l’Italia, proprio in virtù di quella saggezza borghese che vuole la ricchezza anche figlia del risparmio e quindi dell’assenza di debiti, come diceva l’Alberti, fosse addirittura più ricca degli Stati Uniti o della Germania stessa?
Gl’italiani in fondo sanno, avendo insegnato al mondo intero l’arte del commercio e pure quella finanziaria, che i debiti, alla lunga, non si pagano. Da questo punto di vista siamo i più progrediti, i più avanzati a tirar cantonate a chi, dopo quasi un migliaio di anni, non ha ancora capito come stanno le cose, e continua indefessamente, richiamandosi incredibilmente alla moralità, a voler convincere di essere in torto chi l’ha sempre felicemente e coerentemente saputo.

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