Ci sono cose, concetti, specie se
profondi, morali, filosofici a modo
loro, che non si possono spiegare a parole. L’amor fati di Nietzsche è
una di queste laviche ed ondivaghe sensazioni, esclusivamente umane, che
non si possono decifrare – alla faccia degli psicanalisti con-prendoni! –
attraverso strumenti disumanizzanti quali l’analisi, ovvero la scomposizione
dell’intero in-dividuum in sezioni di
sé riducibili a protocolli e a schemi ideati da qualche etnologo bontempone, né
tantomeno attraverso l’oggettiva speculazione razionale. L’amor
fati è piuttosto un gusto, sottilissimo e spesso inafferrabile.
Nietzsche,
ad esempio, ce ne parla quale sintomo ontologico di quell’uomo aristocratico, contrapposto
alla “morale degli schiavi”
risentita coi potenti. Questo tipo
morale di individuo aristocratico, accetta sé stesso come unica discriminante,
peculiare polarità in grado d’investire il nonsense
nichilista di un “senso” che sia anzitutto un “senso” proprio. E così come
accoglie la vita in tutte le sue multiformi sfaccettature e contraddittorie nuances, allo stesso modo, da vivente,
accetta anche sé stesso senza condizioni, in tutta la propria contraddittoria e
caotica complessità.
“Sono
quello che sono: come potrei liberarmi da me stesso?” – s’interroga in tal
senso Nietzsche -. Un’affermazione, almeno superficialmente, persino banale, ma
che tuttavia ribadisce la posizione dell’uomo nella prospettiva della propria impossibilità di farsi altro da sé,
ovvero non-vivente. “Sono fatto così!” – è questa, forse, la voce che parla
all’interno della coscienza aristocratica, la stessa formula che preannuncia
all’amor fati, l’incondizionato amore
di tutto ciò che proviene dalla propria esistenza ricadendo nuovamente in essa,
per dirla con le parole utilizzate dallo stesso filosofo tedesco: “l’amore
per tutto ciò che soltanto viva”.
Eppure Nietzsche sa, intimamente, che la
sua testimonianza è lungi dall’essere uno sbadato e disinteressato manifesto
verso il disimpegno. Un po’ come la terribile innocenza condensata
nell’affermazione di Karamazov: “Tutto è permesso”, non vuol essere
un distratto grido di liberazione dall’imperante nichilismo che è l’esistenza,
ma al contrario la “certezza” che ogni “senso” a cui ricondurre la propria vita
si è sgretolato, liquefatto nell’eterno caos
divenente. “Tutto è permesso” non significa quindi che nulla sia proibito.
Al contrario, in un “mondo” deprivato di ogni “senso”, anche ogni esperienza,
ogni disposizione “morale”, diventa alla fin fine indifferente. Ma la
libertà a cui il nulla apre può essere terrificante, in essa gli appigli
consolatori scompaiono e l’uomo rimane solo, esclusivamente in compagnia di sé
stesso. Sarà infatti proprio quest’uomo a doversi inventare la propria
forza, la propria “volontà”, la propria “verità” e il proprio “senso” da
inseguire e desiderare. Un
uomo aristocratico, del sì alla vita, che
non vuole esclusivamente la casualità disordinata dell’esistere, ma
nell’accettare il carattere sfuggevole ed incontrollabile di tale precarietà,
si racconta che quello stesso caotico divenire è stato voluto.
Insomma, pur essendo consapevole dell’inganno, egli sa che ogni cosa deve
essere amata per cagione di sé stessa e per amore di sé. E così la voluntas, per
quest’uomo, non è fare tutto ciò che si vuole, ma volere tutto ciò che si fa.
Tale volontà di vita è anzitutto un
amarsi, un patire la propria consapevole impotenza e tuttavia proseguire nel
suo esercizio.
E’
l’amor fati, l’amore per il proprio
stesso insensato destino, che sempre sfugge alla volontà d’ordine apollinea.
Nietzsche lo descrive in questo modo: “amor
fati: non voler nulla di diverso, né dietro né davanti a sé, per tutta
l’eternità. Non solo sopportare, e tanto meno dissimulare, il necessario”.
Eppure quest’inafferrabile e fragile amor
fati non è esclusivamente lo svisato sentimento di qualche idealista
dell’animo nobile. Forse, con un po’ di sforzo narrativo, possiamo persino
trovarne alcune tracce nella storia degli uomini. Non è in fondo verosimile, o
meglio non è “aristocratico”, credere che le sconfitte patite dalla cavalleria francese durante la fase iniziale della Guerra dei Cent’anni (Crécy, 1356 e Maupertuis, 1350),
possano essere un oggettivo esempio dell’essenza aristocratica e dell’amor fati? Un “così fu” per ogni aristocratico “io volli”! E persino Van Gogh, non potrebbe essere la
personificazione del concetto nietzscheano di amor fati? Il pittore olandese, infatti, accetta, almeno se prestiamo
ascolto alla “voce interiore” che permea le sue corrispondenze, il tragitto del
proprio cammino esistenziale come un qualcosa di “voluto”. Van Gogh desiderava
innanzitutto dipingere, solo in quest’attività egli riscopriva continuamente sé
stesso e il proprio senso esistenziale, ritrovando forse in tale produzione
anche il lenitivo all’angoscia di vivere, acuita, nel caso specifico, dalla
propria malattia. Scrive difatti al fratello Theo: “forse non capirai, ma il fatto è
che quando ricevo il denaro il mio più grande desiderio non è il cibo, anche se
ho digiunato, perché il desiderio di dipingere è ancora maggiore”. Van
Gogh, dal canto suo, lascia limpidamente emergere, nelle proprie lettere, tutta
questa “tragica” consapevolezza di sé: “ho scelto con piena coscienza la vita del cane;
resterò un cane, sarò povero, sarò pittore”. E non si ferma a questa piena
“presa di coscienza”, ma come l’aristocratico vuole tutto ciò che da esso viene
determinato (anche l’andare incontro ad una tragica fine), l’olandese appalesa
pure l’impossibilità di farsi altro da sé, di disgiungersi dal proprio essere
“tale”, quasi fosse l’ineludibile necessità a cui obbedire: “ebbene, comunque stiano le cose, voglio
andare avanti a tutti i costi, voglio essere me stesso”. Come
l’aristocratico nietzscheano anch’egli non ha mai sentito il bisogno di
dissimulare sé stesso, né tantomeno di nascondere ciò che egli stesso è: “io non ho motivo per coprire le mie nudità!”.
Per questo tipo di uomini, la fedeltà a
ciò che credono o vogliono essere è principalmente un fattore che pertiene al
loro “gusto”. La stessa mutevole ed
insondabile vita diventa principio del loro “gusto” morale: l’amor fati come l’impossibilità di
volersi diversi da ciò che rappresentiamo di fronte ai nostri occhi, pur
sapendo che siamo continuamente in balia degli eventi e del caos. Rimanere
fedeli, ma non necessariamente anche coerenti, all’idea che in quanto uomini
siamo comunque discriminanti e responsabili per il valore che diamo alle cose:
l’aristocratico si sbaglia sui giudizi, ma attribuisce l’errore esclusivamente
a sé stesso – non divide le proprie responsabilità, non dissimula, non cerca
scuse, vuole essere la ragione e il torto di ciò che rappresenta. L’amor
fati è quindi anzitutto una prova d’amore e la volontà di essere
responsabili per quell’amore. L’intima convinzione che, comunque vadano le
cose, ogni fato è un fato giusto, “buono”, perché è prima di tutto il mio fato.
Per dirla di nuovo con Nietzsche: “l’uomo nobile non pecca: per il suo operare vada
pure in rovina ogni legge, ogni ordine naturale, perfino il mondo morale”.
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