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venerdì 30 maggio 2014

Se le diseguaglianze erano meno profonde nel Medioevo


E’ curioso trovarsi a fare i conti con la dimostrazione dell’insuccesso delle più nobili tra le idee moderne. E lo è ancor di più perché, accadendo in un’epoca in cui siamo passivamente bombardati da un'infinità indigeribile di input – dai social network ai media convenzionali-, non ha sortito uno stupore pari alla portata della sua testimonianza. Ripresa da ogni latore d’informazione, la notizia che, in Italia, i dieci più ricchi posseggano un patrimonio equivalente a circa 500 mila famiglie, paradossalmente non ha fatto notizia. I dati forniti dal Censis appaiono sconcertanti, se non addirittura drammatici: i dieci italiani più ricchi possono disporre di un patrimonio di circa 75 miliardi di euro, pari a quello di quasi 500 mila famiglie di operai messe insieme (nel mondo le disuguaglianze raggiungono persino picchi imbarazzanti!).

I duemila italiani più facoltosi posseggono un patrimonio complessivo superiore a 169 miliardi di euro (senza computare il valore degli immobili) ovvero, spiega l’istituto di rilevazione: lo 0,003% dei cittadini italiani dispone di una ricchezza pari a quella del 4,5% della popolazione totale. L’impietosa istantanea sull’andamento socio-economico, oltre a sancire il completo fallimento delle moderne idee democratico-liberiste, segnala una crescente, e forse insanabile, diseguaglianza sociale. L’allargamento del diaframma tra ricchi e poveri non aveva mai raggiunto una tale, svisata, differenza, anche se con tutta probabilità, almeno in epoche remote, premoderne, tale difformità era maggiormente percepita e pubblicizzata (ma già all’epoca non si doveva propagandare il trionfo della democrazia!).

Sgombrando il campo dalle superstizioni militanti e dai vizi del convincimento per ragioni che attengono alla più stretta convenienza, è ormai un dato di fatto che, tra i tanto vituperati imparruccati dell’ancien régime e gli strati più umili di quella stessa società, non vi erano diseguaglianze così marcate. E non potevano nemmeno potenzialmente sussistere, dacché a quell’epoca la ricchezza era spesso misurata sul possesso fondiario (la gleba). Un’unità di misura finita, materica, palpabile, e non, come la ricchezza immateriale e spesso semplicemente virtuale di oggi, infinita, slacciata da ogni fenomenologia sensoriale, fisiologicamente portata ad un accumulo crescente, algebrico, indefinito. Non esistono rilevazioni, ovviamente, sull’andamento della ricchezza pro capite per il medioevo. Coloro che, in tal senso, volessero prodursi in un’analisi di tali parametri dimostrerebbero una cretineria sconfinata. 

Eppure, qualche vaga stima e qualche sommaria indicazione, almeno per le epoche a ridosso delle “gloriose Rivoluzioni”, confermerebbero come le diseguaglianze economiche prima dell’avvento della modernità latu sensu, fossero meno apprezzabili rispetto a quelle raccontate dal Censis di oggi (beninteso, ci stiamo riferendo ad un’epoca in cui le condizioni di vita erano molto più dure e il benessere, come lo conosciamo noi, una chimera fuori dalla portata dello stesso desiderio). Le tabelle redatte dall’economista e statista inglese Gregory King, sull’andamento della società inglese nel 1688, sotto il reame di Giacomo II Stuart, dimostrano come allora le divisioni sociali non fossero semplicemente una questione di reddito o di patrimonio (le differenze, spesso maggiormente percepite rispetto ad oggi, c’erano, ma per ragioni legate più ai benefici di retaggio feudale, alle sperequazioni dei diritti e al prestigio del lignaggio). Entrando nello specifico delle sue “tavole dei diritti e delle spese delle diverse famiglie inglesi, anno 1688” scopriamo che le 160 famiglie di lord secolari – il vertice più ricco della piramide sociale a quell’epoca - (6.400 persone in tutto) percepivano un reddito annuale pro capite di 80 pound (65 pound per i lord ecclesiastici, 50 p. per i cavalieri, 32 p. per i gentleman e per i commercianti importanti, 13 p. e 10 p. per i proprietari terrieri – importanti e minori –, 9 p. per gli artigiani). 

Le parti sociali più disagiate e povere potevano invece, sempre prestando ascolto ai dati di King, contare su un reddito pro capite di 7 pound per i marinai e i pescatori, 4 pound per i lavoratori e servitori, 7 p. per i soldati semplici e 2 p. per i cottager e i poveri. Un povero quindi, nel 1688, poteva disporre di un reddito annuo medio pro capite inferiore di 40 volte rispetto alle sfere più ricche della società inglese, i lord secolari. Oggi, senza bisogno di scartabellare gli studi del Censis o dell’Istat, possiamo fare i conti, ognuno col proprio buonsenso, su quali siano invece i rapporti di forza economici tra i “ricchi” e i “non ricchi”. Il più pagato top manager d’Italia, Marchionne (reddito 7,5 milioni di euro), percepisce quindi circa 300 volte di più di un cittadino della classe media (20.000/25.000 euro annui). Le cose coi Montezemolo, i Benetton, i Briatore ecc…. non sono molto diverse. E non lo sono nemmeno coi Fazio e i Santoro di turno, coi calciatori di serie A e, più genericamente, con l’intero star system televisivo. 

Le differenze “di censo” tra l’”aristocrazia borghese del merito”, per apostrofarla con Stirner (detto fuor di metafora: un’unità di misura inverificabile, che giustifica il profitto di chi l’ha fatto e ammalia nell’onestà rassicurando chi quel profitto non ce l’ha), e i poveri propriamente detti o la classe media, sono oggi, in relazione, infinitamente più evidenti rispetto al rapporto tra la “parassitaria” aristocrazia di spada e le classi sociali più deboli nell’ancien régime. Ma là eravamo all’alba di Rivoluzioni che cambiarono una storia che oggi ci consente di metabolizzarne le sperequate differenze senza usare la violenza. Noi ne cogliamo i frutti solo ora, quelli del benessere accondiscendente e della mollezza sua ancella.

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