Non bisogna essere figli di chi fa figli
Eraclito
La cultura, come la società con cui vuole oggi confrontarsi per esserne riconosciuta, è esclusivamente questione di quantità, di mondo, di pubblico. Quantità che diventa così, inevitabilmente, il primario indicatore di successo (a tal proposito, vien da sé, per estendere il “prodotto” al più largo numero di “consumatori”, bisogna abbassarlo alla comprensione dei più… la cultura declinatasi alla democrazia sembra così svilirsi grazie al solo requisito che l’homo democraticus accetta e riconosce: la convenienza identifica l’utile nelle relazioni tra persone).
Il mâitre à penser da palcoscenico si sente quindi investito di un compito che fa lievitare il solo ego, e questo perché sa, sempre più consapevolmente ormai, per usare le parole di Bordieu, che: “la televisione ha una specie di monopolio di fatto sulla formazione dei cervelli di una parte considerevole della popolazione”.
Un
discorso sulla televisione di “qualità” non potrebbe reggersi su presupposti
più imperfetti. Chi ne proclama le gesta oggi, tutto tronfio della propria mission salvifica, manifesta un certo
strabismo nel comprendere le liturgie televisive, se non addirittura
un’insostenibile cattiva coscienza. Eppure il nuovo motto per gli aracnidi dei
palinsesti rassomiglia sempre più al grido di un fanatico in preda all’estasi
divinatoria: “la qualità, sempre, in
tutto”.
Come
una chimera, infatti, tutti la invocano, ma nessuno in realtà sembra sapere
cosa sia, né tantomeno dove la si possa trovare.
Tralasciando i desiderata dei cultori televisivi a loro stessi, sembra invece più semplice tentare un’interpretazione sul perché i “tromboni dell’intellighentia catodica” si affannino tenacemente nella difesa di questa martellante litania. Costoro, paiono lasciarci intendere col loro pontificare, posseggono la nozione assoluta ed irrefutabile di “qualità”, ed “altruisticamente” vorrebbero condividere questa loro scoperta col resto dell’umanità, imponendogliela “quantitativamente” (una questione che molti si sono criticamente posti, tra gli ultimi Marcuse e il suo “uomo unidimensionale”: chi educa gli educatori, e dov'è la prova che essi sono in possesso del “bene”?).
Proprio quella, paradossalmente, che vorrebbero redimere col loro “generoso” operato. Quel che si dice un conflitto d’interessi patetico.
Chi
educa, o meglio chi vuole fare dell’educazione il volano per creare proseliti capaci
di riconoscere poi il merito dell’educatore in questione, autoreferenzialmente,
è quindi solo un eterno pre-potente che cerca di qualificarsi grazie all’impotenza
altrui. Che abbisogna dell’adulazione, indotta artificialmente, per sentirsi
confermare nel proprio ruolo di “duce”, quello che crede di sapere cosa sia
giusto per gli altri (giusto per non dover ammettere di non sapere cosa sia
giusto per sé).
Credendo quindi che ogni “qualità” sia motivo di “formatività” e pertanto serenamente trasmissibile ed “insegnabile”, come fosse una nozione universale che nulla ha a che vedere con la “vita specifica” di ogni uomo, questi “e-ducatori” decidono "egoisticamente" che l’uomo sia un ineducato materiale da sgrezzare, un vuoto che attenda ansiosamente di essere colmato dalla loro disperata pedagogia.
Poveri,
come tutti coloro che dis-prezzano per poter poi comprare a buon mercato, i
nostri educatori ridimensionano il mondo a propria lillipuziana misura, per
illudersi che esso non possa avere un valore senza il proprio insegnamento e
godersi quindi il potere finto di controllarlo.
E
così sono proprio loro stessi a creare nel bisogno questo “uomo da riempire”, ché
solo tale uomo-contenitore ne motiva la “sacra” funzione, incoraggiando
esclusivamente il loro meschino, limitante e statico autocompiacimento.
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