Il
suono vibrante della campanella; i banchi minimalisti color verde marcio, tutti
uguali; la lavagna vuota, sporcata dei vortici lasciati dal gesso e la maestra
increspata di rughe, nella sua impostata uniforme di pessimo tweed.
Evidentemente, gl’illustri studiosi dell’eco non hanno mai frequentato
le sguarnite mura di una scuola media di provincia, per cui non hanno mai
potuto seguire le seducenti lectio
magistralis di geografia, ove quelle insegnanti canute spiegavano cos’erano i tre
settori in cui si compone ogni economia che si rispetti. Loro erano altrove,
forse già referenziati dall’onorifico titolo Hdemico, o magari solo distratti
dall’album stropicciato delle figurine Panini.
Chissà
se proprio a causa di questo black out
permanente, non hanno mai potuto imparare che l’economia italiana, come tutte
le economie avanzate del sistema occidentale, è un’economia che,
volendosi reggere sulla capacità di produzione, abbisogna però d’impiegare
sempre meno “risorse umane” per il suo successo produttivo. Tradotto per gli
studenti più discoli: in pochi sono impiegati nella produzione e molti invece
lavorano nel terziario, nei servizi.
Se
quegli stessi edotti eco-nomisti, avessero poi seguito altre imperdibili
lezioni scolastiche, saprebbero addirittura che in Italia siamo più di 60
milioni, e che possiamo contare su una popolazione attiva (i criteri per la sua
determinazione sono cambiati nel 2001, e cambiano di continuo) di circa 22 milioni di unità.
“Quanti
impiegati ci sono e quanto Pil genera ogni settore produttivo?” – dovrebbe
incalzare il piglio di ogni studente avveduto, disegnando un arco col piede
inarcato, vanitosamente.
Il
Pil Italiano, all’interno di questo scenario economico-sociale, può contare su
un settore primario che vale il 2% del Pil, un settore secondario del 25%, ed
un settore terziario pari a circa il 73% del prodotto interno lordo. Nei primi
due settori - quelli che producono con le mani, per dirla con l’uomo di strada
-, lavorano più o meno 7 milioni di persone: circa il 30% della forza lavoro
complessiva (contando pure gl’impiegati amministrativi, commerciali, i quadri e
i “quadroni”, che però non producono, fattivamente, un bel niente).
Regressus ad infinitum: scomodando per un momento il dottor Kien che scartabella libri impolverati e scartoffie, si ricorda agli Harry Potter della produttività, che non sempre le cose sono andate in questo modo: all’indomani dell’unificazione dell’Italia, nel 1861, ad esempio, gli italiani residenti erano poco più di 22 milioni (26 milioni considerando i confini attuali, per una popolazione attiva di più di 15 milioni di persone). Il 72% di loro era occupato nell’agricoltura e il 13% nell’industria.
Il dato, rispetto alla contemporaneità è quindi completamente invertito: l’85% della popolazione attiva di allora, quasi 9 milioni di persone, era impiegata a produrre e ad “alimentare” la restante nazione. Semplici questioni legate al progresso, alla competitività e alla produttività, nevvero?
Regressus ad infinitum: scomodando per un momento il dottor Kien che scartabella libri impolverati e scartoffie, si ricorda agli Harry Potter della produttività, che non sempre le cose sono andate in questo modo: all’indomani dell’unificazione dell’Italia, nel 1861, ad esempio, gli italiani residenti erano poco più di 22 milioni (26 milioni considerando i confini attuali, per una popolazione attiva di più di 15 milioni di persone). Il 72% di loro era occupato nell’agricoltura e il 13% nell’industria.
Il dato, rispetto alla contemporaneità è quindi completamente invertito: l’85% della popolazione attiva di allora, quasi 9 milioni di persone, era impiegata a produrre e ad “alimentare” la restante nazione. Semplici questioni legate al progresso, alla competitività e alla produttività, nevvero?
Ergo, tornando al nostro alunno provetto, che sospinto dalla boria per la nuova conoscenza afferrata, dovrebbe persino riuscire a concepire evoluzioni razionali che ai fini bocconiani tipizzati paiono sfuggire: “quindi un quarto della forza lavoro (primario e secondario, alias manifattura e agricoltura), è sufficiente per “dare da mangiare” ad un’intera nazione...?".
Non
solo: gli stessi 6 milioni di lavoratori producono da soli (dimenticando per un
attimo la bilancia dell’import-export) già tutto ciò di cui abbiamo bisogno per
vivere nel benessere, se non addirittura nell’opulenza… a meno che non si
voglia sostenere che ci manchino oggetti, paccottiglie di ogni tipo, spesso
frivoli orpelli, con cui riempire il vuoto del dopo-lavoro e la nostra angoscia
esistenziale (i sacrosanti discorsi sulla “progressista” deindustrializzazione
del Paese, che è ora l'ottava manifattura al mondo e dei correlati argomenti, per
cui in perfetto occidit style, si sta
velocemente riducendo ad un bengodi del settore “nientario”, delle start up e dell’economia 4.0, li lasciamo ad interventi mirati
sulla décadence européenne. Qui il
punto vorrebbe essere un altro. Meno tecnico e più “filosofico”, se si preferisce
de-finire).
Giunto
a questa apparente aporia, il nostro supereroe con la cartella dei Trincellini,
già sufficientemente immerso nel mondo degli adulti, fatto di voglie e desideri
che non possono, schopenhauerianamente, essere colti nemmeno nel momento della
loro realizzazione, potrebbe persino avanzare, con buona pace del bocconiano
incallito dall’autoerotismo, ulteriori dubbi alla maestra di geografia. “Non è
in fondo vero, almeno se si fa il momentaneo sforzo di disintossicarsi dalla
pubblicità imperante, che abbiamo già tutto ciò che occorre per vivere bene?”.
E
infatti, la dichiarata ex-nuova frontiera dell’economia di mercato è quella
che pretende di creare nuovi bisogni soddisfabili con sempre nuovi e allettanti
oggetti prodotti ad hoc per una
necessità indotta, che fino a ieri non sapevamo neppure di possedere. Il
problema, semmai se ne volesse indicare per forza uno, è che abbiamo
addirittura troppo (e infatti, lo stesso meccanismo economico che si studia
nelle Università di grido (uni-verso) si è fatto demenziale: siamo costretti a
consumare per produrre e non a produrre ciò che ci serve per vivere, di cui
abbiamo davvero bisogno).
Proviamo
allora a fare, fino in fondo, l’imitazione di quell’imberbe studente decenne: “come
intendiamo creare nuovi posti di lavoro, se il 30% della forza lavoro soddisfa
il fabbisogno delle persone, ma non del mercato?”.
Ampliamo
ulteriormente il mercato? Magari su Marte ci attende qualche omino verde da
colonizzare alla bisogna…
Aumentiamo
i consumi? E perché, dato che non mi manca nulla per il mio benessere materiale?
Il
mercato è saturo, ma nell’uomo, retrocesso felicemente a water, a tubo digerente, a consumatore indifferente, c’è forse ancora spazio vuoto da
riempire con ogni sorta di mirabolante prodotto innovativo, almeno fino a
quando l’illuminato imprenditore moderno non deciderà di applicare ovunque la
logica capitalista del “massimizzare gli utili tagliando gli sprechi”.
A
quel punto, ovvero quando per l’imprenditore e per il capitano d’industria sarà
conveniente utilizzare qualche nuova tecnologia per produrre le stesse cose che
oggi sono fatte da quei 6 milioni di “fortunati”, non tarderanno ad arrivare
anche i tagli random al personale (e pensare che il liberismo
positivista-economico era convinto di poter portare ”la massima felicità al maggior numero di persone”).
E
all’epilogo di quest’insensata produzione si compirà finalmente il regno dei
consumatori giulivi, senza lavoro e soldi in tasca da spendere, ma pieni di desideri
da soddisfare, persino disponibili alla sottomissione e allo
sfruttamento, ché hanno già fatto esperienza di essere un vuoto da colmare…
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