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lunedì 2 gennaio 2017

Il lavoro latita, ha senso che si faccia ancora trovare?

Il suono vibrante della campanella; i banchi minimalisti color verde marcio, tutti uguali; la lavagna vuota, sporcata dei vortici lasciati dal gesso e la maestra increspata di rughe, nella sua impostata uniforme di pessimo tweed. Evidentemente, gl’illustri studiosi dell’eco non hanno mai frequentato le sguarnite mura di una scuola media di provincia, per cui non hanno mai potuto seguire le seducenti lectio magistralis di geografia, ove quelle insegnanti canute spiegavano cos’erano i tre settori in cui si compone ogni economia che si rispetti. Loro erano altrove, forse già referenziati dall’onorifico titolo Hdemico, o magari solo distratti dall’album stropicciato delle figurine Panini.

Chissà se proprio a causa di questo black out permanente, non hanno mai potuto imparare che l’economia italiana, come tutte le economie avanzate del sistema occidentale, è un’economia che, volendosi reggere sulla capacità di produzione, abbisogna però d’impiegare sempre meno “risorse umane” per il suo successo produttivo. Tradotto per gli studenti più discoli: in pochi sono impiegati nella produzione e molti invece lavorano nel terziario, nei servizi.
Se quegli stessi edotti eco-nomisti, avessero poi seguito altre imperdibili lezioni scolastiche, saprebbero addirittura che in Italia siamo più di 60 milioni, e che possiamo contare su una popolazione attiva (i criteri per la sua determinazione sono cambiati nel 2001, e cambiano di continuo) di circa 22 milioni di unità.

“Quanti impiegati ci sono e quanto Pil genera ogni settore produttivo?” – dovrebbe incalzare il piglio di ogni studente avveduto, disegnando un arco col piede inarcato, vanitosamente.
Il Pil Italiano, all’interno di questo scenario economico-sociale, può contare su un settore primario che vale il 2% del Pil, un settore secondario del 25%, ed un settore terziario pari a circa il 73% del prodotto interno lordo. Nei primi due settori - quelli che producono con le mani, per dirla con l’uomo di strada -, lavorano più o meno 7 milioni di persone: circa il 30% della forza lavoro complessiva (contando pure gl’impiegati amministrativi, commerciali, i quadri e i “quadroni”, che però non producono, fattivamente, un bel niente). 

Regressus ad infinitum: scomodando per un momento il dottor Kien che scartabella libri impolverati e scartoffie, si ricorda agli Harry Potter della produttività, che non sempre le cose sono andate in questo modo: all’indomani dell’unificazione dell’Italia, nel 1861, ad esempio, gli italiani residenti erano poco più di 22 milioni (26 milioni considerando i confini attuali, per una popolazione attiva di  più di 15 milioni di persone). Il 72% di loro era occupato nell’agricoltura e il 13% nell’industria.
Il dato, rispetto alla contemporaneità è quindi completamente invertito: l’85% della popolazione attiva di allora, quasi 9 milioni di persone, era impiegata a produrre e ad “alimentare” la restante nazione. Semplici questioni legate al progresso, alla competitività e alla produttività, nevvero?

Ergo, tornando al nostro alunno provetto, che sospinto dalla boria per la nuova conoscenza afferrata, dovrebbe persino riuscire a concepire evoluzioni razionali che ai fini bocconiani tipizzati paiono sfuggire: “quindi un quarto della forza lavoro (primario e secondario, alias manifattura e agricoltura), è sufficiente per “dare da mangiare” ad un’intera nazione...?".

mancanza lavoro

Non solo: gli stessi 6 milioni di lavoratori producono da soli (dimenticando per un attimo la bilancia dell’import-export) già tutto ciò di cui abbiamo bisogno per vivere nel benessere, se non addirittura nell’opulenza… a meno che non si voglia sostenere che ci manchino oggetti, paccottiglie di ogni tipo, spesso frivoli orpelli, con cui riempire il vuoto del dopo-lavoro e la nostra angoscia esistenziale (i sacrosanti discorsi sulla “progressista” deindustrializzazione del Paese, che è ora l'ottava manifattura al mondo e dei correlati argomenti, per cui in perfetto occidit style, si sta velocemente riducendo ad un bengodi del settore “nientario, delle start up e dell’economia 4.0, li lasciamo ad interventi mirati sulla décadence européenne. Qui il punto vorrebbe essere un altro. Meno tecnico e più “filosofico”, se si preferisce de-finire).

Giunto a questa apparente aporia, il nostro supereroe con la cartella dei Trincellini, già sufficientemente immerso nel mondo degli adulti, fatto di voglie e desideri che non possono, schopenhauerianamente, essere colti nemmeno nel momento della loro realizzazione, potrebbe persino avanzare, con buona pace del bocconiano incallito dall’autoerotismo, ulteriori dubbi alla maestra di geografia. “Non è in fondo vero, almeno se si fa il momentaneo sforzo di disintossicarsi dalla pubblicità imperante, che abbiamo già tutto ciò che occorre per vivere bene?”.
E infatti, la dichiarata ex-nuova frontiera dell’economia di mercato è quella che pretende di creare nuovi bisogni soddisfabili con sempre nuovi e allettanti oggetti prodotti ad hoc per una necessità indotta, che fino a ieri non sapevamo neppure di possedere. Il problema, semmai se ne volesse indicare per forza uno, è che abbiamo addirittura troppo (e infatti, lo stesso meccanismo economico che si studia nelle Università di grido (uni-verso) si è fatto demenziale: siamo costretti a consumare per produrre e non a produrre ciò che ci serve per vivere, di cui abbiamo davvero bisogno).

Proviamo allora a fare, fino in fondo, l’imitazione di quell’imberbe studente decenne: “come intendiamo creare nuovi posti di lavoro, se il 30% della forza lavoro soddisfa il fabbisogno delle persone, ma non del mercato?”.
Ampliamo ulteriormente il mercato? Magari su Marte ci attende qualche omino verde da colonizzare alla bisogna…
Aumentiamo i consumi? E perché, dato che non mi manca nulla per il mio benessere materiale?
Il mercato è saturo, ma nell’uomo, retrocesso felicemente a water, a tubo digerente, a consumatore indifferente, c’è forse ancora spazio vuoto da riempire con ogni sorta di mirabolante prodotto innovativo, almeno fino a quando l’illuminato imprenditore moderno non deciderà di applicare ovunque la logica capitalista del “massimizzare gli utili tagliando gli sprechi”.

A quel punto, ovvero quando per l’imprenditore e per il capitano d’industria sarà conveniente utilizzare qualche nuova tecnologia per produrre le stesse cose che oggi sono fatte da quei 6 milioni di “fortunati”, non tarderanno ad arrivare anche i tagli random al personale (e pensare che il liberismo positivista-economico era convinto di poter portare ”la massima felicità al maggior numero di persone”).
E all’epilogo di quest’insensata produzione si compirà finalmente il regno dei consumatori giulivi, senza lavoro e soldi in tasca da spendere, ma pieni di desideri da soddisfare, persino disponibili alla sottomissione e allo sfruttamento, ché hanno già fatto esperienza di essere un vuoto da colmare

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