Per Marc
Bloch “il bravo storico è come
l’orco della fiaba. Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda”.
La metafora sulla “maniera” storiografica avanzata dallo storico dei Les Annales sembra oggi più desueta
che mai. Lo storico-orco, cacciatore, onnivoro di dati, di tracce, di segni e
di testimonianze umane, sembra irrimediabilmente cozzare contro la nouvelle vague, tutta contemporanea, che
fa capo alla nuova umanità multitasking, iperspecializzata, fatta non
più da uomini-interpreti ma da professionisti e qualificate cavie, in ogni
settore ed ambito (il bello di quest’iper-specializzazione è che mette al
riparo l’iper-specializzato di turno da ogni possibile contestazione. Ma come?
Sono io ad avere il titolo e la qualifica! Tu non sei niente, almeno nel mio
campo di competenze. Della serie: ognuno al suo posto… la tana salvi tutti per
un’umanità sbriciolata che vuol essere solo strumento utile ad altri uomini in-organici).
La natura
“liquida”, per dirla con Bauman, insieme alla crescente specializzazione
delle professionalità che, sole, finiscono ormai per sostanziare anche la
rispettabilità degli uomini, sono pericolosamente penetrate nelle questioni di
metodo, persino in quelle nobilitanti l’esistenza legate al sapere. Oggi
la storia, e la cultura più in generale, si fanno, quando va bene, su
Focus e su qualche elitaria rivista redatta dalla solita stantia partita di
giro che “se la suona e se l’ascolta”. Scartabellano un autoerotismo
peloso, autoreferenzialmente, tanto per sentirsi equamente appartenenti ad un
club che “sa le cose”. Ma è proprio questo loro ammorbante sapere che deve, per
vanità, essere “liquido”, multitasking e specializzato.
E così, alla
casta di storici-postmoderni interessa esclusiva-mente sapere quante
volte il condottiero di turno si è fatto la toilette, quanti avversari si sono
fronteggiati, su quante file, e se queste erano pari o dispari (per il secondo
conflitto mondiale, particolarmente apprezzato da un certo pubblico di
appassionati, si arrivano a toccare parossismi insospettabili, degni persino di
una sceneggiatura hollywoodiana: quante cartucce sono state sparate il giorno
tal dei tali? Insomma: l’importante, deontologicamente, è concentrarsi sempre
sul superfluo).
Questo sedicente tipo di storico gossipparo, alla
moda, continuamente alla recherche di
spazi pubblicitari e palinsesti prezzolati, sembra procedere analiticamente per
compartimenti stagni – alla faccia dell’interdisciplinarietà introdotta proprio
dalla Scuola dei Les Annales -, per sezioni scollegate le une dalle altre, quasi
fosse un complesso mosaico ove le singole tessere e i frantumi sono più
importanti dell’effetto complessivo. Se è pur vero che, come diceva già
Nietzsche, “il tutto non è più un tutto”,
questi odierni “ultimi uomini” con la
patente culturale non sembrano saper pensare al di fuori della rinsecchita
procedura analitica. Fanno loro il metodo cartesiano, ma solo la prima metà
di esso.
Sono uomini frazionati, atomizzati,
sezionati in tranci, incapaci di far dialogare quei finissimi frammenti per
pervenire infine ad una sintesi unitaria. Che senso ha, ad esempio, conoscere tutte le dietrologie e ogni
documento o scarabocchio sull’armistizio dell’8 settembre, se poi non si giunge
anche a cogliere la portata, il carattere umano, essenziale, di
quell’avvenimento?
L’Italia, in quella sciagurata occasione,
mostrò esemplarmente i tratti caratteristici della sua classe dirigente: da un
lato proclama di “continuare la guerra” per non inimicarsi gli ex amici
tedeschi, ma dall’altro, segretamente, tratta l’armistizio con gli alleati (il
solito trasformismo all’italiana: Franza
o Spagna purché se magna).
Questa
estrogenata conoscenza, esclusivamente analitica ed oggettiva, non ha quindi un
senso profondo, non è utile – e non nel senso dell’utilità
quantificabile, mercificabile, a cui oggi ogni cosa è ridotta -.
Non
serve perché non aiuta a comprendere quella dimensione umana, sottilissima e “quasi
immobile”, “quasi fuori dal tempo”, della “lunga durata”.
Quella delle “profondità” marine, dei “ritorni insistenti”,
evocata da un altro illustre storico dei Les
Annales, Braudel.
All’analisi
oggettiva ma comunque parziale, è quindi preferibile una sintesi altrettanto
limitata (per Michelstaedter infatti: “se “oggettività” vuol dire “oggettività”, veder oggettivamente o non ha
senso perché deve aver un soggetto o è l’estrema coscienza di chi è uno colle
cose, ha in sé tutte le cose”). Persino approssimativa ma non artefatta, costruita a tavolino, persa nei
rivoli e nelle quisquilie del dato e dell’”ultima” fonte documentale.
Perché
la sintesi, col suo fisiologico a posteriori didascalico, anche in virtù di
quel carattere approssimativo, soggettivo, è tuttavia più autentica, vera e
viva, rispetto al suo contraltare modale analitico.
Quest’approssimazione, quest’imprecisione che è anzitutto un’imprecisione dell’uomo, rimane quindi la massima consapevolezza possibile, il punto più vicino a cui
possiamo tendere verso un’impossibile totale conoscenza, ché non vi è nulla di
certo e assoluto nello studio di una variabile come l’uomo, in tutte le sue
polisemantiche declinazioni. Perché la
sola forma apollinea, senza il divenente dionisiaco, non porta ad alcuna con-prensione
della discriminante antropica.
La “scienza
degli uomini nel tempo”, per dirla nuovamente con Bloch, potrà anche essere
una scienza, ma nel suo essere "scienza" rimane tuttavia una scienza umana, non
scientifica, non oggettivante, qualificata e suscettibile da quell’ondivago eco, da quelle autentiche imprecisioni,
che sono proprie dell’indeterminato sub-jectum che le vivifica.
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