Il
dato, essendo un participio passato, è
sempre, irrimediabilmente, ex post. A posteriori per definizione
scientifica, sembra aver acquisito persino l’autorevolezza per oleare di
oggettività il posteriore di ogni buon credente.
La stucchevole battaglia dei dati, tra ermeneutiche posticce ed interpretazioni
partigiane, si tinge, anche nel secondo
trimestre dell’anno, delle solite evoluzioni funamboliche. Da una parte il Governo,
visibilmente eccitato, celebra le prodezze del proprio operato: aumentano gli
occupati, cala la disoccupazione, la volta buona is coming. Dall’altra parte i soliti gufi pasticcioni, rosiconi
porta sfiga buoni solo a disfare le res
gestae dei magnifici: aumentano i licenziamenti, calano i rapporti di
lavoro a tempo indeterminato, improvvisa moria di peluche.
Chissà se qualche osservatore
bontempone, nel marasma delle guerre intestine a posteriori, si è pure accorto
che quei reificati dati riguardano i
mesi di aprile, maggio e giugno. Chissà se qualche spettatore dei volteggi
dell’Istat riuscirà ad affermare con certezza che a maggio stava in
panciolle.
Anzi – così desiderano i latori di ogni certezza – dovremmo persino
essere grati ai dati perché hanno certificato che tre mesi fa si stava proprio bene. O terribilmente male, ma è una
questione di dettagli, di dati, appunto.
E pensare che Nietzsche, in tempi non
sospetti, anticipò le frenesie dei gonzi delle astrazioni scientifiche: ”il
numero è il nostro grande mezzo per renderci il mondo maneggevole. Comprendiamo
tanto quanto possiamo contare”. Da quel momento si è
progressivamente deteriorato ogni rapporto tra il dato numerico e la vita
vissuta.
Lo scollamento con l’esistenza è evidente, eppure noi, col tonto ottimismo
di Candide, abbiamo deciso che proprio il dato sia l’unica
certezza a cui assicurare le nostre speranze, i nostri progetti, e le nostre
esistenze cifrate.
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