Se
la libertà di stampa significa qualcosa, significa il diritto di dire alla
gente ciò che non vuol sentirsi dire
G. Orwell
G. Orwell
“In tutto il mondo la libertà di stampa
è in consistente e preoccupante declino”. Così esordisce la relazione di RSF (Reporters Sans Frontiers) sulla libertà di stampa nel mondo che, anche
quest’anno, arriva puntuale coi suoi titoli meritori e con le sue stroncature.
L’Italia, come sempre da
quando esistono queste rilevazioni, non brilla in libertà d'informazione. Anzi, peggioriamo persino di qualche
posizione rispetto all’anno scorso, passando dalla 73° alla 77° posizione.
Un po’ ovunque nel mondo – continua
l’indagine dei RSF - i leader politici
sembrano essere “paranoici” nei confronti del giornali e dei giornalisti (qualcuno si ostina ancora a dire che dovrebbero essere i contrappesi dei "poteri forti"... in realtà lo sono sempre meno, dato il grado zerbinesco,
specie in Italia, raggiunto da qualche testata che pare soffrire di
bifrontismo: se da una parte guardano al marketing e alle vendite,
dall’altra cercano sempre di compiacere il leader politico di turno, forse anche per
rimpinguare le casse con nuove regalie).
L’Italia,
tornando ai dati ricavati dalla relazione dei RSF, risulta essere il fanalino di
coda in Europa. Dietro di noi si piazzano infatti solo Cipro, Grecia e
Bulgaria. Persino Moldova, Nicaragua, Armenia, Lesotho e Burkina Faso –
quasi fossero Eden democratici -, sono più liberi della sgangherata stampa italica.
Le cause di questa retrocessione sono da
rintracciare anzitutto nell’alto livello di violenza intimidatoria nei
confronti dei cronisti nostrani, e nell’”allarmante” comportamento del sistema
giudiziario della Città del Vaticano contro i giornalisti Fittipaldi e Nuzzi in
connessione agli scandali Vatileaks e Vatileaks 2.
Se
poi RSF volesse anche “misurare” la compenetrazione del potere col sistema
editoriale in generale, siamo sicuri che la classifica peggiorerebbe
ulteriormente. Eppure i giornali vengono al mondo
proprio per compiacere la vanità del
signorotto di turno: il primo tra essi nasce in Francia nel 1631, la “Gazette”
di Théofraste Renaudot, considerato il padre del giornalismo francese, era infatti
controllata dal cardinale Richelieu, che vi scriveva pure.
Non ci si può allora stupire se da noi,
benché con qualche secolo di ritardo rispetto all’ancien régime, più di qualche giornalista e più di qualche
“gazette” sostengono apertamente ed acriticamente il leader più à la page. Cosa dovrebbe fregare a costoro
dell’informazione, se poi quella stessa “informazione” è addirittura lautamente
compensata? Alcuni di questi giornalisti 2.0, contemporanei e "similmente democratici", rassomigliano
piuttosto a maggiordomi, a galoppini
compiacenti, invertebrati servi del potere sempre ben disposti al “sissignore”.
“Uomini di altri uomini”, per usare
un’espressione che Bloch declinava al mondo feudale.
Ma al di là dell'informazione prona ai desiderata dal potere, c’è forse
persino qualcosa di più allarmante dei coevi Richelieu e delle madame delle lobby. Come diceva Pulitzer, che si intendeva della
questione: “una stampa cinica e
mercenaria, prima o poi, creerà un pubblico ignobile”.
E in tal senso viene appunto da
chiedersi quanto possa influenzare l’informazione un popolo acritico, volutamente
sottomesso, inciuchito e rintronato dall’enorme mole di notizie da cui viene quotidianamente
bombardato. Un popolo incapace di fare
ordine - e a cui non interessa neppure farlo -, ché per quello servirebbe
anzitutto un’intelligenza autonoma,
critica, consapevole, in grado di giudicare.
Quest’informazione
"volgare" deve arrivare a tutti - business is business -, perciò ha bisogno di
abbassare continuamente i livelli della sua offerta per aumentare così la clientela e il mercato. Deve ridursi, appiattirsi, per
risultare comprensibile e conquistarsi i favori di tutto quel pubblico
democratico che vuole essere informato ma poi non fa nulla, di suo, per
informarsi.
E
così facendo, tutto è ormai indifferente, grigio e opaco. E ogni avvenimento
finisce per avere lo stesso peso e il medesimo sapore di tutti gli altri: dal tweet stravaccato
che fa notizia alla saggistica più engagé.
L’informazione democratica, dunque,
riempie ma non spiega, al pari della democrazia rappresentativa sua
parente prossima, fa scegliere ma non agire (“sento un profondo disgusto per i giornali, ossia per l’effimero, per il
transitorio, per quanto oggi è importante ma domani non lo sarà più”,
diceva in tal senso Gustave Flaubert).
Un
popolo che sa tutto ma che non vuole capire nulla per conservarsi infine il
buonumore; un popolo che denigra la casta ma appena
può, sottobanco, si comporta allo stesso modo per ottenere qualche vantaggio
personale; un popolo intimorito dal
potere, che sacrifica volentieri anche la propria dignità per avere un
tornaconto economico, non può volere anche una buona e libera informazione.
E’ fatto della stessa pasta dei giornali
lascivi e dei potenti immanicati. Meglio essere condotto dai pastori e dagli
“uomini forti”, perché alla libertà e all’autonomia del pensiero hanno
preferito il pascere nei comodi pascoli della “demos-copìa”.
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