Il viaggiare per
profitto viene incoraggiato; il viaggiare per sopravvivenza viene condannato
Z. Bauman
Il razzismo è diventato un
argomento particolarmente spigoloso. Spesso utilizzato da chi si sente in
dovere di risolvere concretamente ogni potenziale problema vomitando la bile
accumulata per sollevarsi così dalle proprie frustrazioni quotidiane, o da chi
sognava di condurre una ruspa da piccolo, esso sta sostituendo il calciomercato
quale argomento principe nei bucolici bar sport di provincia (nei migliori si
riesce a fondere persino gli argomenti… Obadì, Obadà ed il Presidente di
Federcalcio si fa!). Benché se ne parli in ogni talk show, sembra che
l’argomento sia diventato paradossalmente un tabù. Non se ne può parlare e
tuttavia se ne parla ovunque, basta che lo si faccia però in maniera manichea,
eterodiretta, da tifosi militanti.
Come ogni cosa di cui si parla troppo
finisce per perdere qualsiasi senso, il razzismo, seppur velato dall’ipocrisia
strisciante, sembra essere quindi solo l’ennesimo palliativo retorico per
compiacere il proprio ego, o quello di un elettorato eternamente – e
volutamente - minorenne (ed impaurito!).
Eppure, lasciando la retorica a coloro
che continuano ad alzare cortine fumogene solo per non dover fare i conti con
una realtà che li spaventa, è persino possibile analizzare il razzismo sotto
una lente d’ingrandimento etica. E così, moralmente, se si volesse esercitare
un critico divertissement atto ad
indicare una traccia storica dell’etica umana, si potrebbero avanzare persino
ipotesi “fantasiose”, talvolta bizzarre, ma forse più capaci di entrare in
sintonia con la problematica per capirne infine l’origine “ontologica”.
Nelle classi elitarie, almeno quelle
preindustriali aristocratiche, non emerse mai una dialettica particolarmente
violenta sulla questione razziale (nella Grecia classica se ne faceva semmai
una questione di opportunità. Platone e Aristotele, ad esempio, non avevano
dubbio alcuno sul fatto che i “barbari” dovessero essere schiavi proprio perché
“diversi” – xenos -).
Abituata a pensare il mondo in ordini,
gerarchie immutabili e preordinate, retaggi e lignaggi di emanazione divina, la
nobiltà feudale dà per scontato che vi siano differenze tra uomo e uomo, tra la
nobiltà e il popolo. Seppur fortemente antidemocratico, quello non era però un
razzismo in senso letterale: più che alle razze esso guardava infatti agli
“stati” e agli ordini della società tripartita medievale (bellatores, oratores, laboratores).
La classe nobiliare dell’ancien régime, e con essa qualsiasi altra classe che si senta apicale rispetto all’organizzazione sociale, non aveva infatti bisogno di ricorrere ad una giustificazione razziale per giustificare la propria superiorità. Per quello bastava la millenaria convinzione (mai messa davvero in serio dubbio prima del 1789) di rappresentare la legittima erede di una qualche mitologica tradizione, o il defensor fidei dell’ortodossia monoteista più alla moda (la ritualità della sacra unzione, la discendenza da Troia, dall’impero romano o dai Merovingi…). In tal senso il nobile è quindi fisiologicamente un “razzista”, anche se, paradossalmente, gli frega ben poco delle “razze”: è obbligato a vedere una profonda scala gerarchica per differenziarsi ed elevarsi così al di sopra di ogni altro uomo e comprovare in questo modo la propria posizione elitaria, il proprio ruolo e privilegio.
Al contrario rispetto all’aristocrazia
feudale, sembra invece che il razzismo emerga più ferocemente in quelle classi
sociali che sentivano il bisogno di giustificare dapprima un potere nascente
non ancora sedimentatosi (spesso basato sul denaro e non sui titoli ereditari)
e poi per non retrocedere da quello status
quo finalmente conquistato e riconosciuto socialmente. E’ il razzismo
“moderno”, portato dalla borghesia professionale e mercantile che, proveniente
dal “terzo stato” e risentita verso le classi privilegiate, intendeva farla
pagare a caro prezzo a chiunque abbia ostacolato il loro trionfale successo
(per dirla con Camus: "lo schiavo comincia col reclamare giustizia e
finisce per volere la sovranità. Ha bisogno di dominare a sua volta". La
miccia che accese questa rivolta morale del ressentiment
viene infatti eccitata dall’”odio dell’impotenza”).
Un comportamento esclusivamente morale, o psicologico se si preferisce, ma che finisce tuttavia per produrre effetti epocali concreti. Quasi come il dis-prezzo del semplice operaio che diventa capo officina: quando il “povero di spirito” ex schiavo raggiunge una posizione di comando, tende ad esercitare quel potere sui sottoposti in maniera più violenta, ché abbisogna di giustificare una posizione tanto bramata, ma che non gli sarà mai affine (non essendo potente, non riesce nemmeno ad esercitare il potere, e si incazza della propria inadeguatezza cogli ex pari rango, ora sottomessi al suo impossibile desiderio di comando).
E così, la “positiva” e calvinista borghesia scientifica erede morale di quel risentimento dei vinti ora vincenti, quella dei
diritti inalienabili, si scopre oggi ancor meno egalitaria di quanto credesse
all’alba delle “gloriose rivoluzioni” (in fondo non lo è mai stata davvero, ha
anzi voluto scientificamente provare la superiorità della razza bianca - pardon
“caucasica”, come dicono quei “tronchi” di democratici scientifici statunitensi!-
per giustificare le porcherie consumate in giro per il mondo: da Gobineau a
Kipling, fino al cugino di Darwin, Galton).
La benestante middle class odierna, rifacendosi a quegli stessi valori borghesi
originari, ne ha ripreso tuttavia anche i vizi, le ipocrisie e le “virtù”
altruistiche: uguali sì, ma meglio se
sei ariano! Se hai la pelle di un altro colore, se non guidi una fuoriserie ma
ti fai accompagnare da barconi fatiscenti o da scontate utilitarie da barboni,
o se a Natale non ti distrai col presepe e l’i-phnone di ultima generazione,
sei un po’ meno umano e fratello.
Ma in fondo non c’è da stupirsi se in
un’epoca prettamente economica, l’homo
oeconomicus, seppur sotto la maschera della fratellanza democratica
e dell’ipocrita e strisciante superiorità per gli storici meriti acquisiti, difenda anzitutto l’integrità delle
proprie tasche quando gli fa comodo avvertire che i suoi denari e i suoi
sacrifici sono in pericolo.
Tra gl’illuminati filantropi
filo-borghesi dei giorni nostri c’è poi anche il caso – non ci facciamo mancare
proprio niente! – di chi ha fatto soldi coi profughi, sfruttando i già
sfruttati in nome della lotta allo sfruttamento e, coerentemente, in fondo, è
pure razzista! C’è chi fa i soldi coi profughi e si dice invece solidale e di
sinistra. C’è chi fa i soldi coi profughi vendendo sistemi d’allarme, armi, o
venendo semplicemente eletto. C’è chi fa soldi coi profughi reiterando
trasmissioni televisive a non finire, con buono share e quindi migliore pubblicità
retributiva… Diciamo una cosa nuova: ma ‘sti profughi che si mettono in marcia
per poi pagare i malavitosi per essere trasportati, non potrebbero mettere
insieme i loro risparmi e comprarsi una loro barca, arrivando davvero da uomini
liberi –ed incazzati- nei luoghi da dove è iniziato tutto il loro attuale
disastro?
Abbiamo sostituito un razzismo
incardinato sulle superstizioni millenarie con un razzismo fondato sulla paura
di perdere un benessere divenuto unica identità davvero socialmente
riconosciuta e stimata. La paura d’impoverirsi, di essere derubati – dei nostri
privilegi da occidentali a sfruttare in “patria” chi si trova in una posizione
di necessità – vedi imprenditore benefattore – e a sfruttare, più in
generale, tutte le neo-colonie terzomondiste che ci permettono di mantenere il
nostro assurdo tenore di vita: la paura di perdere quella sacra uguaglianza
borghese edificata esclusivamente sulle quantificazioni del dio quattrino e
sullo sfruttamento dell’”inferiore” di turno.
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