nel nobile la persona volgare
disprezza l’irragionevolezza o ragionevolezza stravagante della passione,
soprattutto quando è indirizzata su oggetti il quale valore le pare totalmente
fantastico e arbitrario.
F. W. Nietzsche
E infatti la sconfitta e la vittoria, o
il successo se si preferisce, non possono essere due unità di misura “serie”. Persino
nelle competizioni sportive che, giocoforza, debbono piegarsi al volere del
risultato, esistono esempi lampanti di come la sconfitta sia solo una delle
tante discriminanti per l’uomo che voglia davvero interrogarsi sull’uomo (vedi,
ad esempio, l’”aristocratica” nazionale brasiliana ai mondiali del
1982).
“Sconfitta” e “vittoria” non sono
nemmeno valori “morali”. Servono piuttosto a rassicurare quegli uomini che
abbisognano sempre dell’oggettività per poter giudicare senza farsi giudici;
persone incapaci di diventare “unità di misura”, ma che tuttavia vogliono
trovare all’esterno una sicura valutazione per evitare di creare da sé stessi i
propri giudizi. In tal senso la vittoria gli è funzionale perché
banalizza la vita, la rende a-problematica, sicura di essere vissuta,
perfettamente gerarchizzata, piegata a fittizi paradigmi riconoscibili e ben
misurabili!.
Gli uomini, infatti, a differenza di
tutti quei “fattoni” che hanno “voluto” delegare all’impersonale fatto il compito di valutare la bontà dell’essere umano, non sono una quantità. Da
questo punto di vista, gli individui, checché ne dica l’insicura scienza che -
dalle galileiane qualità primarie in poi -, tutto vuol rischiarare per
con-prendere, non sono riducibili, meccanicamente, all’oggettivo calcolo
matematico, né all’altrettanta voglia di quantificazione che presiede ai fatti
(questo modello volgarizzante l’essere umano ha tuttavia “vinto” la partita con
la storia: Von Mises, nella sua fredda brutalità, può tranquillamente parlare
di persone che valgono 300 mila o 1 miliardo di dollari senza scandalizzare
gl’”indigenti umani”).
Ma non sempre le cose sono andate così. La
cavalleria francese, ad esempio, venne pesantemente sconfitta a Crècy (1346) e
a Maupertuis (1356). Eppure, quelle sconfitte, non furono paradossalmente delle
“vere” sconfitte.
Se molti cavalieri persero quelle
iniziali battaglie della guerra dei Cent’anni, e con esse spesso anche la vita,
guadagnarono tuttavia in valentia, in
dignità. La medievale cavalleria francese venne infatti sbaragliata perché non volle
accettare le nuove dinamiche della guerra “moderna”, rimanendo, anche a costo
della disfatta, fedele al suo ruolo e al suo sentire “aristocratico”. Un
termine, quello “aristocratico”, che non si riferisce esclusivamente
all’appartenenza di classe, ma è anzitutto sinonimo di un sentire comune, di un
gusto “morale”, per dirla con Nietzsche: “il
non volersi fare diversi da ciò che si è”.
La guerra, specie quella medievale, era
infatti una questione per soli nobili. Un gioco crudele d’invasati adolescenti se
si vuole (il trovatore Bertrand de Born ne fu un privilegiato ammiratore: “la vista di gesta belliche mi procura una
grande allegrezza”), tuttavia quei fieri cavalieri sapevano bene chi
erano e cosa volevano. In tal senso, le battaglie di Maupertuis e di Crécy non
sono unicamente vicende da annotare sugli annali di qualche sbadato cronista, bensì
simboliche manifestazioni di uno stile esistenziale morente, che probabilmente
non ha mai attecchito nei desideri degli uomini, specie sulle democratiche
masse calvinistizzate ubriacate dall’american
way of life e dalle loro elementari logiche legate al risultato e al
successo arido. A Maupertuis, come poi anche a Nicopoli, non morirono solo
uomini in armatura, perì soprattutto un sentire, un gusto morale, una dignità
aristocratica: la convinzione che, al di là dei fatti, non si può vincere
davvero se per farlo si deve sacrificare ciò in cui si crede, ciò che si è e
che si rappresenta.
In quelle due battaglie, gl’inglesi, già
disposti ad accettare la logica utilitarista del tornaconto n’importe quoi, ingaggiarono mercenari e
parte della popolazione imbelle
(denominata “liberi uomini d’Inghilterra”) per vincere la “pesante” cavalleria
di Re Filippo VI e di Giovanni il Buono (fatto prigioniero dagli inglesi
proprio a Maupertuis e sulla parola lasciato libero di tornare a Parigi per
presenziare agli Stati Generali, decide di far fede al proprio patto e torna in
prigionia a Londra. Per l’”aristocratico” Giovanni la parola data coincideva
con la stessa legge e l’onta
maggiore sarebbe stata quella di “perdere la faccia”). A quell’epoca, secondo
la convenzione della società tripartita in "stati", la guerra era cosa per soli
nobili, tuttavia gli eserciti plantageneti non vinsero esclusivamente perché il
nobile “duro e puro” francese si rifiutava di far partecipare al “gioco dei
giochi” il popolano e il plebeo. Vinsero perché cambiarono le regole d’ingaggio
in battaglia. E così i mercenari e i plebei assoldati da Edoardo III
d’Inghilterra, sfruttando la gettata dell’arco lungo di nuova generazione e
rifiutando di battersi “nobilmente” secondo gli schemi cortesi (duenlum – il contatto individuale corpo
a corpo), sconfissero facilmente i capetingi ancora legati al proprio decadente
sentire cavalleresco (persino il Concilio Laterano II del 1189 vietò l’utilizzo
in battaglia della balestra per tutti gli eserciti cristiani). Gl’inglesi,
insomma, introducendo la tecnologia dell’arco gallese in battaglia, bararono
pur di vincere al gioco bellico.
Testimoni un po’ tardivi di
quell’anarchia feudale ormai in lento disfacimento, iper-individualista, che
non accettava ordini neanche dall’autorità reale, né intendeva piegarsi ad una
qualsivoglia organizzazione militare, la cavalleria francese affrontava la
battaglia a viso aperto, frapponendo tra sé e la morte la sola fiducia nel
proprio “valore”, per dirla con Nietzsche: “un’autosufficienza
che trabocca e si comunica a uomini e a cose”. Perdenti fisiologici, destinati
a provare continuamente il proprio coraggio e la propria valentia attraverso il “gioco” che la guerra simboleggia, bellatores per “necessità” esistenziale,
uomini che non volevano concedere questo privilegio al volgo, assumendo
totalmente su di sé gli onori e gli oneri della vittoria o della sconfitta: l’aristocrazia
del fiordaliso di quegli anni sembra rappresentare una delle tante immagini di
ciò che ancora Nietzsche credeva essere un tangibile “segno di nobiltà”: “mai pensare di abbassare i nostri doveri a
doveri di tutti; non voler deporre, non voler dividere la nostra
responsabilità; annoverare tra i propri doveri i propri privilegi e il loro
esercizio”. Farsi incontro al proprio fato
– sosterrebbe forse un cavaliere di “lignaggio aristocratico” -, mantenendo
però fieramente autocoscienza del proprio essere, senza nemmeno prendere in
considerazione la possibilità di una vittoria o di una salvezza che prescinda
da esso – è meglio la sconfitta, o la morte se occorre, rispetto alla perdita
della dignità, al doversi fare altro da sé.
Non c’è dubbio che quegli uomini vennero
sconfitti, ma se perdere significa mantenere “francamente” autocoscienza di ciò
che si è per non scomparire, io sto coi perdenti e coi vinti. Perché in fondo a
Maupertuis si combatté tra due eserciti che volevano vincere per motivi diversi,
persino antitetici tra loro: chi lottava per aggiungere nuovo potere (senza
però nessuna intenzione di attuarlo) e chi, invece, combatteva per dare un
senso a sé stesso e alla propria consapevole potenza.
Maupertuis fu insomma una tragedia nel
senso classico dell’accezione. L’inizio della velocissima ed inarrestabile
ascesa della mentalità moderna personificata dagli yeomen, dagli “uomini liberi” e dalla mentalità calvinista
borghese. Quell’ormai radicata forma
mentis del “fine giustifica sempre i mezzi”, della disonestà, della slealtà
travestita da innovazione, dell’opportunismo e della vendita di sé stessi,
purché questi strumenti permettano di ottenere poi il successo, uno status quo o una posizione sicura nel sociale.
Nonostante il declino e l’oblio della
memoria, ancora oggi i cavalieri di Maupertuis sono attualissimi. E lo sono
soprattutto per chi non vuole accettare di sottoporsi a squallidi clan, a consorterie,
a lobby o a partiti, pur di arrivare. Per chi rifiuta di lucrare sfruttando le
difficoltà altrui, per coloro che rinunciano alle facili lusinghe e alle
scorciatoie pur di rimanere fedeli a ciò che credono, intimamente, di essere.
Perché scegliere quindi di stare coi
decadenti e perdenti cavalieri francesi medievali? Perché lottare per una
sconfitta sicura quando si potrebbe invece scegliere di barare al gioco della
vita ed ambire così, almeno in potenza, ad un successo riconosciuto dalla “civile”
società dei baciapile? Perché come diceva ancora una volta Nietzsche: “l’anima aristocratica ha un profondo
rispetto di sé”.
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