L’aggressione a un capotreno e a un
macchinista alla fermata della stazione di Villapizzone ha sollevato un
polverone. Giovedì scorso una pandilla (banda
di strada) di salvadoregni ha aggredito
a colpi di machete un capostazione rischiando di fargli perdere un braccio.
L’evento, dalle poco vaghe tinte splatter, non è solo l’ennesima occasione per
riflettere sullo sgangherato sistema giudiziario italiano o sul pericolo dei
nuovi appestati che si ostinano a riversarsi sulle coste del Belpaese anche nel
periodo balneare. Ciò che è accaduto a Milano, può essere anche preso
esemplarmente come un’ulteriore occasione per riflettere sulle preferenze
dell’essere umano. In Italia, atavicamente, siamo troppo impegnati ad
azzuffarci tra di noi per accorgerci di cosa capita fuori dai confini patri.
Siamo tendenzialmente manichei, un po’ per quell’ancestrale provincialismo (lo stesso che però ha fatto nascere i Comuni e le Signorie coi tesori artistici che ancora oggi possiamo ammirare), un po’ perché la riflessione, ormai, non ci appassiona più abbastanza (“con la cultura non si mangia”…poi, magari, ci si compra la laurea in qualche lido accondiscendente).
Nero o bianco, guelfi o ghibellini, ed
oggi… buonisti e… forse, “cattivisti”. Sull’accaduto infatti tutti parlano,
ognuno si sente in dovere di dire la propria, democraticamente. Se le suorine
buoniste danno fiato alle trombe sfoggiando una lunga coda di paglia, i
“cattivisti” skins-felpisti sbraitano per far sentire quella voce troppe volte frustrata
dalla mancanza di attenzione, richiamandosi a millenaristiche purghe,
inquisizioni che risolverebbero i problemi definitivamente e “soluzioni finali”.
In realtà, laddove il buonista con la puzza sotto il naso sente la propria
cattiva coscienza, il “cattivista” interventista dimostra tutta la sua fifa aspettandosi
che quella paura trovi finalmente una fonte di consolazione. In fondo non è
nemmeno un problema di migranti e migrazioni, si tratta invece, semplicemente,
di capire fino a che punto siamo disposti a rinunciare alle nostre libertà
personali per raccogliere qualche brandello di sicurezza in più.
In fondo la vita, latinos o non latinos,
è anche sofferenza e rischio (le contromisure adombrate dai falchi
dell’interventismo parlano già di guardie armate sui treni pronte a fare da
deterrente o a sparare alla bisogna. Confesso che mi piacerebbe vedere quanti
“danni collaterali” causerebbero quei desideri armati… Chi farà da deterrente e
quale sarà la soluzione contro i cow boys dei treni? Lo stesso problema, a
certe latitudini, lo crearono ad esempio le nutrie in val padana o i siluri del Po).
Ma in fondo la stessa democrazia che permette di scrivere sui social network senza colpo ferire, e il libero scambio mercantile globale che concede un benessere materiale ampiamente superiore a quei “barbari” che ci vorrebbero invadere, comportano delle rinunce e dei rischi, talvolta anche violenti. Non si può avere la pretesa di controllare ogni cosa e poi volere anche una “certa” libertà individuale (in tal senso, la democratica America è sempre un passo avanti. Dopo la strage in una chiesa di afroamericani a Charleston, la Nra ha già proposto la soluzione per controllare anche le follie dello squilibrato di turno: portare le armi anche in chiesa!).
E allora, anziché sollazzarsi sulle
spiagge di un’isoletta dell’Egeo che qualcuno spera presto in svendita, anziché
ostentare la propria ricchezza sul bagnasciuga di qualche vetrina sudamericana
o orientale, perché non allontanare definitivamente la paura del mondo che li
circonda con un soggiorno dalle parti della “sicura” Corea del nord?
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