Se non si appartiene alla parrocchia di
quelli che “homo more datus demonstrata”, per fare il verso a Spinoza, ma si crede che il dato
tracci solo una tendenza, spesso nemmeno troppo verosimile rispetto
all’irriducibile realtà, si potrebbe persino ghignare delle ultime rilevazioni targate Eurostat.
L’Istituto
europeo di statistica ha infatti certificato che nell’ultimo trimestre del
2015, l’Italia è diventato il primo Paese dell’Eurozona come numero di
disoccupati che sono entrati nella totale inattività economica.
Gli addetti ai lavori li definiscono con la poco lusinghiera etichetta di “inattivi cronici”: il 36,5% del totale,
circa il doppio rispetto alla media europea che si attesta invece al 18,4%.
I
dati sulle “rinunce” e sull’assoluta estromissione dal mercato del lavoro sono
più alti anche rispetto a Paesi macroeconomicamente peggiori dell’Italia:
in Bulgaria, nello stesso periodo, ha completamente smesso di cercare lavoro il
14,5% dei disoccupati, in Romania il 19,2%, in Slovacchia il 4,9%, nella
Repubblica Ceca il 13,8%, in Portogallo il 17,2%, in Spagna il 14,1%, e in
Francia il 18,6%.
Al di là dell’algido ed impersonale
participio passato (dato), per spiegare le motivazioni di questa cronica frustrazione e mancanza di speranza
verso il futuro non serve riesumare il Tiresia del mito di Edipo. Forse è
colpa del lavoro nero che non entra nel computo delle rilevazioni, forse siamo
solo più emotivi degli altri popoli, fragili, appallati, poco tenaci,
fisiologicamente propensi all’adagiamento, forse invece il motivo non pertiene
a nessuna delle precedenti allusioni, o magari si potrebbe avanzare un
tentativo di spiegazione solo incrociando le tante ipotesi. O forse ancora le
cose sono persino più semplici di quanto sospettato. L’uomo contemporaneo,
anche nella sua “nobile” declinazione lavorativa, è un uomo che non riesce a stare più nella propria pelle.
Anonimo ma schedato e datato, spersonalizzato strumento, servo
compiaciuto dal salario, per dirla lucidamente con Lyotard:
“nel mondo tecnoscientifico siamo come
tanti Gulliver, troppo grandi o troppo piccoli ma mai sulla scala giusta”.
In ogni caso, al di là dei potenziali
chiarimenti del fenomeno, la logica spicciola rende almeno una questione
verosimile: la crescita dell’inattività,
paradossalmente, fa diminuire proprio la disoccupazione. Perché? Perché il
tasso di disoccupazione si calcola dividendo le persone in cerca di lavoro per la
forza lavoro (in Italia le persone dai 15-24 anni). In tal senso, se gl’inoccupati aumentano, evidentemente diminuiranno
anche le persone in cerca di lavoro, a meno che non si postuli che quegli
stessi individui non evaporino nel nulla: “lontani dagli occhi, lontani dal
cuore”. La logica ragionieristica è di facile intuizione: se, a parità di
denominatore, il nominatore (persone in cerca di occupazione) cala, il
risultato sulla disoccupazione cambierà proporzionalmente alla diminuzione: ad
esempio, dividere per due 10 persone in cerca di occupazione anziché 8, farebbe
calare il dato percentuale di disoccupati (con presumibile compiacenza dei Governi
di turno).
E infatti proprio ai "Governi bene" converrebbe aumentare silenziosamente l’inoccupazione,
perché in fondo sugli inoccupati è più facile far calare il silenzio dell’oblio.
In fin dei conti sono fannulloni, incapaci, lavativi che non hanno santi in
paradiso, né rappresentanze sindacali. Meglio
allora truccare un po’ i dati, sistemarli alla bisogna, perché alla fin fine
ogni “buon governo” vuole fare primariamente una bella figura…
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