In un frammento contenuto in Aurora,
Nietzsche allude ad un’utopica “classe impossibile”: “povero, lieto e indipendente! – queste cose insieme sono possibili;
povero, lieto e schiavo! – anche queste sono possibili”. Evidentemente
impressionato ed ispirato dall’ormai travolgente Rivoluzione Industriale, il
filosofo di Rӧcken, nella seconda parte del suo intercalare, si riferisce
proprio a quegli operai, formichine operose ridotte ad ingranaggi di una
macchina che li aliena e li sovrasta, “come accessori dell’umana inventiva tecnica”.
Tuttavia, oltre all’evidente carattere critico e di denuncia, Nietzsche, seppur sommariamente, traccia la strada per una nuova possibilità di uomo-lavoratore, persino per una nuova etica del lavoro. Indipendente e lavoratore, non sono oggi sinonimi, checché ne dica l’odierno lavoratore salariato, che chiama col termine “indipendenza” l’acquisita possibilità di acquistare “col sudore della fronte” ogni nuovo oggetto capace di soddisfarne i drogati bisogni materiali.
Eppure non sempre il lavoro è stato
spersonalizzante e mortifero: come può infatti essere indipendente un individuo
che ha un prezzo?. Nella società preindustriale, ad esempio,
il laboratores (alias “faticatore”)
non era completamente separato dai mezzi di produzione utilizzati, non
sottostava all’etica depressiva della competizione (gli statuti artigiani e
di arti e mestieri del due-trecento condannavano, anzi, questa pratica), non si
faceva dettare i ritmi di lavoro dalle macchine, dai cronometri e dalla
produttività, che sono invece le grandi novità introdotte proprio dalla Rivoluzione
industriale.
E’ pur vero che il contadino e l’artigiano di epoca medievale lavoravano spesso più ore rispetto all’operaio
industriale di oggi ma, appunto, come dice Carlo Maria Cipolla: “non doveva sottostare alla dura disciplina
degli orari e dei tempi della fabbrica (…) e aveva il piacere e l’orgoglio di
far uscire dalle proprie mani un prodotto finito”. Il lavoro, per quegli artigiani, coincideva quindi con la propria
identità, e questo perché quegli uomini, alla fin fine, credevano intimamente che solo ciò che
sapevano fare potesse diventare davvero un lavoro “serio”: un lavoro in cui
riconoscersi, col giusto tempo di poter personalizzare ciò che producevano,
trasmettendogli un’impronta a tal punto che, spesso, si distaccavano
malvolentieri dalla loro stessa creazione (sul rapporto lavoro-identità la
dicono lunga, tra le altre cose, anche i cognomi che ancora oggi portiamo:
Marangoni, Fabbri, Cavallari, Cuoghi, ecc…).
I semplici lapicidi impiegati nella costruzione
delle cattedrali medievali, ad esempio, si sentivano coinvolti “in prima
persona” nella realizzazione di un’opera che aveva per loro e per la stessa
comunità di riferimento un senso profondo incommensurabile. Quel lavoro,
insomma, non era considerato come il semplice tentativo di rimpolpare il
proprio curriculum con una nuova, transitoria, esperienza professionalizzante
(Daverio, presentando la scultura di un capomastro che tiene in testa una
scimmia – rappresentazione del diavolo –, nel museo dell’opera della Cattedrale
di Wӧrms, mostra ancora una volta come l’artigiano medievale sentisse il
bisogno di personalizzare quello che faceva - e lo faceva!- esprimendo nell’oggetto sé stesso).
In tal senso, l’homo faber premoderno,
non ancora contaminato dalla produzione in serie e al netto delle misere
retribuzioni che riceveva, riusciva tuttavia a produrre oggetti di alto
livello, quando non addirittura delle vere e proprie “opere d’arte”. Ancora Cipolla
si chiede come ciò sia stato possibile, ammettendo che fattori “intangibili” e
non quantificabili, quali il gusto per la creazione, l’amore per il proprio
lavoro, l’orgoglio per la propria abilità, il “semplice” amor proprio, dovevano
avere un valore che nessuna moneta poteva interamente comprare (ancora
Nietzsche, a tal proposito, ricorda: “è
obbrobrioso avere un prezzo, per il quale non si resta più persone, bensì si
diventa ingranaggi”).
E’
possibile allora, in un’epoca esclusivamente economica e dove tutto
viene quantificato e ridotto a somma di denaro, abbozzare le basi per una nuova
etica del lavoro? Un’etica che preveda, primariamente, un
saper fare che sia indissolubilmente radicato a ciò che umanamente sei, perché
lavorare con piacere è, innanzitutto, il primario sintomo di produttività.
Un’etica che non debba sempre scovare inizialmente una nicchia di mercato,
un’offerta adeguata, un bacino di clienti, ma che produca innanzitutto ciò che
sente, che gli piace, che crede possa comunicarlo come persona, trovando magari
un “mercato” adeguato in quelle altre
persone che abbiano la stessa esigenza.
Un’etica
ribaltata, che non si risolva nel mercato e non veda nell’altro
solo un algido ed oggettivato consumatore da spennare. Un’etica del lavoro dal volto umano, fatta non da lavoratori ma da
uomini.
Perché alla fin fine si ha davvero
l’impressione che, come diceva Wilde: “il
lavoro sia il rifugio di coloro che non hanno nulla di meglio da fare”. Vivere per produrre e non, come accade
spesso anche oggi, produrre per vivere.
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