Sembra che lo Stato non miri più
esclusivamente a creare cittadini sui quali poi avanzare le proprie pretese di
Stato, nel tentativo di dare così un senso alla propria autorevolezza
istituzionale e alla propria legittimità. Egli non intende più rinvigorire la
sua autorità, anzi, quando può, d’accordo con la moda volgare
dell’antipolitica incalzante, tende addirittura a screditarsi, rottamando la
propria stessa liceità istituzionale.
Oggi infatti, supinamente adagiato alla
realpolitik del dio denaro, pare infatti che quel Leviatano desideri
soprattutto creare contribuenti da tassare, chè la potenza statale non si misura più,
come un tempo, solo sull’indottrinamento dei sudditi-cittadini, bensì soprattutto sulla
capacità che questi hanno di contribuire economicamente alla solidità dei conti
pubblici.
In questo modo, vien da sé, l’individuo trova cittadinanza nello Stato in misura proporzionale a quanto può “contribuire” al suo sostentamento e funzionamento.
Allo Stato contemporaneo interessa
quindi primariamente fare cassa. Non importa poi se quei proventi arrivino dalla
tassazione sull’economia reale o se arrivino invece da quella sulle rendite
finanziarie. Anzi, giacché quando fa soldi sul mercato finanziario, li fa
proporzionalmente alla velocità con cui si scambiano compravendite azionarie, allo
Stato è conveniente che il meccanismo della finanza cresca, sia nella velocità
che nella massa degli scambi.
Da questo punto di vista, il rialzo del prelievo sulle rendite finanziarie al 26% non determina una rinnovata visione politica rispetto alla tassazione sull’economia reale in genere, ma sta semplicemente a significare che lo Stato intende monetizzare con entrambi i tipi di “economia”: sia con quella virtuale, di carta, finanziaria, sia con quella reale, concreta, che produce beni e servizi (è paradigmatica, in tal senso, l’influenza che potrà produrre il QE sul Pil italiano. Stimata in un punto e mezzo di Pil in due anni, l’acquisto massiccio di titoli degli intermediari finanziari fatto dalla BCE targata Draghi conferma, di nuovo, quanto valga la finanza virtuale sulla ricchezza presunta di un Paese).
Da questo punto di vista, il rialzo del prelievo sulle rendite finanziarie al 26% non determina una rinnovata visione politica rispetto alla tassazione sull’economia reale in genere, ma sta semplicemente a significare che lo Stato intende monetizzare con entrambi i tipi di “economia”: sia con quella virtuale, di carta, finanziaria, sia con quella reale, concreta, che produce beni e servizi (è paradigmatica, in tal senso, l’influenza che potrà produrre il QE sul Pil italiano. Stimata in un punto e mezzo di Pil in due anni, l’acquisto massiccio di titoli degli intermediari finanziari fatto dalla BCE targata Draghi conferma, di nuovo, quanto valga la finanza virtuale sulla ricchezza presunta di un Paese).
Dal momento in cui allo Stato conviene che la massa di scambi finanziari aumenti, è scontato che il circuito finanziario non sia per nulla complementare a quello produttivo, come vorrebbe invece farci credere il nuovo golden boy della politica italica. Anzi, spesso lo subissa come mole di ricchezza prodotta, lo doppia nel Pil e quindi anche nella capacità contributiva.
Alla fin fine lo Stato si comporta come un privato qualsiasi. Lucra laddove può lucrare, magari confezionando l’operazione grazie ad un abile battage pubblicitario. Ha imparato bene la logica senza scrupoli del profitto, e quando si accorge che le aspettative non rispondono ai suoi desiderata economici taglia semplicemente i rami secchi improduttivi… anche se queste fronde sterili e aride, stando almeno ai dati, sono proprio l’economia reale, che produce, quella fatta dagli uomini in carne ed ossa.
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