Già da un pezzo, da quando non usiamo
più vendere i voti, il popolo non si preoccupa più di nulla (...) ora se ne
infischia e due cose soltanto desidera ansiosamente: pane e giochi.
Giovenale
A furia di rappresentarla
caricaturalmente, screditandola con presunzione - almeno fino a quando quella
“cortesia” non si strozza in gola, ricacciata nello stomaco dalle disfatte
elettorali -, hanno ottenuto un risultato opposto
all'intenzione. L’elettore “berlusconiano” per costoro è un cittadino di
serie B, sempre “a traino” del proprio “pastore”, servile e zelante: una
rappresentazione un po’ sbiadita di quel “popolo bue” che ricompare come un’eco
dal medioevo.
Scansando le astrazioni compiaciute dal campo, per restituirle finalmente al superfluo a cui appartengono, pare che l’antiberlusconismo si riconcili così col berlusconismo antitetico nella perfetta sintesi di una comune realtà costitutiva: un popolo che si lascia prendere per il naso volentieri, trasversalmente (unico autentico presupposto ad una “larga intesa”), e trascinare laddove i loro amati pastori intendono condurlo. Come all'epoca dell’Impero romano, un periodo storico così simile al nostro (il Satyricon di Petronio conferma questa sensazione), il popolo saziato da erba sardonica, muore ridendo.
E dunque, questo presupposto "spirito del popolo", ammesso che il popolo possegga una spiritualità univoca che ne trascenda il preponderante istinto di autoconservazione (vorrebbe fregiarsi di tale qualifica, ma non ne possiede i prerequisiti individuali), si fa attivo maggiormente mentre decide, peraltro democraticamente, di eleggere Mussolini o tra i partigiani che volevano liberarsi dalle suo sciagure? Quanto Volkgeist venne poi impiegato nell'elezione (che sfiorò il 44%) del “democratico” Partito Nazionalsocialista?
Tuttavia sembra
serenamente emergere un’eccitazione che orienta le masse quando,
messe con le spalle al muro o quando ancora, meno allegramente, si ritrovano
con una pistola puntata alla tempia (spesso corree di quell'iniziativa
suicida), “decidono” di affidarsi ad un “uomo forte”, “della provvidenza”, o ad
una forma politica che sia capace di “governarli”.
Non è forse compatibile con tale
necessità, il dibattito che sta stucchevolmente intasando i media,
polarizzandone l’attenzione?
L’”urgenza” di superare il porcellum per sostituire ad esso un sistema elettorale che favorisca la “governabilità” del paese è così, semplicemente, la manifestazione plastica di un bisogno in cui l’”uomo democratico” si sente mancare, ovvero l’insaziabile necessità di premurosi pastori che lo "con-ducano" verso il salvifico benessere (il "candido" Voltaire rivela l'applicazione del principio democratico secondo i "padri" illuministi: "il popolo dev'essere guidato e non istruito").
A scanso di ogni principio di rappresentanza, quindi, chiedendo un governo chiedono anzitutto di essere governati! Abbandonati a sé stessi, lasciati orfani dal bengodi mondano, questi uomini sarebbero forse capaci di trovare ancora un senso in grado di restituire un significato ed un orientamento alla loro fiacca esistenza? Pare ormai che il più democratico sia colui che ha più fretta di diventare dipendente di un sistema in grado di risolvergli alla bisogna quei problemi di cui non vuole farsi carico.
Come un Tafazzi scientemente auto-castratosi prima di martellarsi, questo “popolo addomesticato” sacrifica così il suo potere contrattuale, immolandolo sull'altare della contingente utilità, e si subordina ad un qualsiasi potere purché sia in grado di preservarlo dalla perdita del proprio “interesse” particolare: la libertà come benevola “cattività”; l'affidamento ad un pastore che lo addestri a dovere; un pifferaio autorevole da seguire, una fede, un governo.
Ma un popolo che antepone la paura ai
principi – quelli in suo favore per giunta, democratici per definizione – non è
un popolo, ma un guazzabuglio plebeo che non conosce morali
superiori ai propri istinti e non vede l’ora di tornare nella sudditanza da cui
è stato precocemente liberato (il popolo è conservatore, alla faccia degli
ormai onnipresenti “riformisti” di tutti i colori).
Non si potrebbe dunque, se lo stato delle cose fosse quello così sommariamente approntato in precedenza, che convenire con l’ambiguo antieroe ibseniano Stockmann: “la maggioranza ha sempre torto”! E se, meno cinicamente, si volesse ancora riconoscerle una possibilità di redenzione, ci si dovrebbe almeno porre con Ibsen un quesito: “chi è che forma in un paese la maggioranza, gli intelligenti o gli imbecilli”?
E alla fine anche i “democratici” hanno ottenuto ciò per cui si sono adoperati, ma si sorprendono ancora, così poco innocentemente a dire il vero, del risultato del loro trafficare: un elettorato simil-berlusconiano, benché deprivato, dagli smottamenti e dai teatrini, dagli inciuci e dai voltagabbana, della fede verso il capo tribù.
Eppure questi “democratici” si sentono
diversi dal demos e credono ancora di essere i migliori.
- Umano troppo umano - direbbe qualcuno con ironia luciferina.
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