La vittoria
ottenuta dalla nazionale italiana al mondiale del 1982 non meravigliò
affatto l’empirico “catenacciaro” Brera, l’ultima raffinata penna che
riuscì a trasmettere una caratura persino al dozzinale prodotto di bigiotteria
calcistico: “la tua vittoria è limpida,
pulita: non è neppure venuta dal caso, bensì da un’applicazione soltanto logica
del modulo che ti è proprio, e in tutto il mondo viene chiamato all’italiana”.
Brera ha ragione, se non avesse contemporaneamente anche torto.
E’ pur vero
che quella vittoria fu limpida, pulita, persino meritata, ma talvolta, andando
contro ad ogni evidenza, non sempre l’idea borghese
di merito, così come l’apostrofava Stirner, risponde anche ai criteri
irragionevoli della giustezza, specie se declinata all’atomizzata e partigiana
sfera calcistica.
E infatti qui non
si tratta esclusivamente delle manichee categorie di vittoria o di sconfitta.
Non fa ancora
parte, o perlomeno non era ancora così assoluto nel popolo brasiliano, lo
strabico dogmatismo del risultato n’importe
quoi. Del vincere a qualsiasi costo, dei “mezzi adeguati ai fini”, della
concorrenza estrogenata e totalizzante l’esistenza. Quelle sono ancora gerarchie
valoriali da occidentali, da schiavisti, da vanitosi servi del capitale, che
stanno però velocemente attecchendo anche nei pochi degeneri “vincenti” fautori
del Brasile-Brics.
La storia dell’“auriverde” dell’82 fu
infatti qualcosa più di un’epopea pallonara. Fu una tragedia nel senso aristotelico
della qualificazione,
greco-classico, ove si fronteggiavano la volontà e la necessità, il
riconoscimento della determinazione dall’esterno e l’impulso volitivo a
determinarsi in forma propria. La fragile e fulminea favola della selezione
guidata da Telé Santana nasce già nel gironcino sudamericano (4 vittorie in
4 partite), ma è nella tournée pre-mondiale che nasce il mythos, e con esso pure la rovina necessaria all’idealizzazione
tragica dei vinti: Zico e compagni battono per ben due volte la Germania
Ovest, poi tocca alla Spagna organizzatrice, e infine rifilano un netto 7 a 0
all’improbabile Eire.
Quel Brasile
vinse senza troppi problemi anche il proprio girone ai mondiali, non tra i più
scontati, dato che dovette affrontare la temibile Unione Sovietica, la Scozia
di Dalglish e Souness e infine lo sparring
partner Nuova Zelanda. Ma grazie ad un cortocircuito dialettico nella
pianificazione di quei mondiali, venne previsto un secondo gironcino
all’italiana formato da 3 squadre che avrebbe prodotto poi le formazioni che
sarebbero approdate alle semifinali.
Il Brasile dovette così vedersela con
un’Italia in cui nessuno credeva, e con gli odiati rivali argentini, campioni
uscenti rafforzati da Maradona. Dopo aver strapazzato proprio gli argentini per 3 a 1 nella prima
partita, il 5 luglio si compì l’epilogo di quella moderna tragedia calcistica.
Ai brasiliani bastava solo un pareggio
contro l’Italia per passare il turno (grazie alla miglior differenza reti rispetto agli azzurri, che pure
avevano domato l’albiceleste), ma quella seleçao
non era costruita per fare calcoli, né algide macchinazioni razionali. Quella
squadra giocava, e anche contro l’Italia lo fece nell’unico modo in cui sapeva
farlo.
Si credevano i
migliori, e probabilmente lo erano (Zico lo confessò a Udine nel suo candore: “pensavamo di farvene 5”), ma il calcio,
essendo sport piuttosto rudimentale e caro ai cefalopodi mono-neurali, non resse
probabilmente il confronto cogli Zico, Falcao, Socrates, Eder, Cerezo,
Junior, e le cose andarono diversamente.
Schierata la
formazione titolare (“non giochiamo per
il pareggio” ne fu l’onesto grido di battaglia, quasi fosse la
consapevolezza della sofoclea Clitemnestra: “so che faccio cose inopportune, a me sconvenienti”), perse contro
un’Italia irrobustita da medianacci e da rentier,
seppur talentuosi.
Finì 3 a 2 per
l’”italietta”, grazie alla tripletta
del redento Rossi - e poteva andare pure peggio se solo l’arbitro non
avesse ingiustamente annullato il gol di Antognoni - (alla fin fine fu però quel
Brasile, albo d’oro permettendo, il vincitore estetico-morale del mondiale
iberico. E infatti l’Italia trionfante, proprio in virtù di quel successo, si
trovò presto a dover fare i conti col fardello della responsabilità. Così nella
qualificazione per gli Europei dell’84 iniziano a giocare, a divertirsi, a
scoprire che i piedi buoni c’erano anche nel consesso italico. Il risultato fu
che gli azzurri, seppur giocando bene, non riuscirono nemmeno a qualificarsi per
la competizione continentale. Sconfitta da oscene nazionali di “scarpari”,
dominate, ma alla fine vincenti. Ma forse i campioni italiani si percepirono
davvero tali soprattutto in quei due anni successivi all’affermazione mondiale,
quando si sentirono, a buona ragione, un po’ Brasile anche loro).
Quel torrido pomeriggio del Sarrià
probabilmente non segnò la “rovina del calcio” – come dichiarò successivamente Zico con una punta
di rosichio -, né la fine della sua quintessenza più pura ed ineffabile. Quel giorno scomparve definitivamente dalla faccia
della terra un’idea morale ed estetica. Un’idea diversa rispetto
all’imperio dell’ortodossia mercantile a cui la società dell’efficienza
razionalizzata ad ogni ambito dell’esistenza umana ci aveva già da tempo
condotti supinamente. I brasiliani, quasi come l’eco inascoltata in una desertificata
ecumene, sembravano invece portatori di valori autentici, premoderni, banalmente
umani.
E nella battaglia per la sopravvivenza, quei valori hanno perso contro l’etica utilitarista del risultato e del raggiungimento dell’obiettivo a qualsiasi costo, dell’organizzazione taylorista, dell’efficienza quale imprescindibile santino da perseguire a scapito di ogni qualsivoglia diritto ed afflato umanizzante.
E nella battaglia per la sopravvivenza, quei valori hanno perso contro l’etica utilitarista del risultato e del raggiungimento dell’obiettivo a qualsiasi costo, dell’organizzazione taylorista, dell’efficienza quale imprescindibile santino da perseguire a scapito di ogni qualsivoglia diritto ed afflato umanizzante.
E’, ancora una
volta, la vittoria schiacciante della misurabile quantità sull’arbitraria
qualità; del gruppo leviatano ed amorfo sul talento del singolo in-dividuum; dell’organizzazione
maniacale sull’anarcoide guizzo del genio solitario; dell’abnegazione, dell’applicazione,
del pressing e della praxis sul
talento libero da schemi e costrizioni altere; dell’efficacia e dell’utilità
sulla bellezza; dell’uni-forme militarismo sulla fantasia e sull’estro; della
società mondialista dei consumi e della produzione di massa sul poco produttivo
mondo premoderno artigiano e contadino.
Il 5 luglio
del 1982, gli spacconi brasiliani sfoggiarono il loro abito da cerimonia,
convinti di surclassare quell’Italia che rappresentava, almeno idealmente, l’antitesi del loro “futebol bailado”. Così come i cavalieri medievali di Maupertuis
pensavano di andare ad un party del certamen
cortese e non ad una battaglia senza regole, anche Zico e compagni credevano di
far un sol boccone di quella grossolana Italia, in cui molti di loro, peraltro,
giocavano. Ma gli italiani, esacerbata la lezione di Sartre: “nel calcio tutto è complicato dalla presenza
della squadra avversaria”, vendettero cara la pelle. E infatti anche i
giocolieri brasiliani si accorsero dopo pochi minuti dal calcio d’inizio che
quella partita non sarebbe stato il palcoscenico per la magniloquenza della
loro estetica, bensì una trappola escogitata ad hoc per paludare la fragile classe dei verdeoro.
Ma nonostante
la machiavellica strategia ordita dallo stregone Bearzot, i brasiliani persero
quella partita perché non vollero accettare di giocare diversamente da come
avevano sempre fatto, anche a costo dell’imprevista disfatta sportiva. Orgogliosi
e sicuri della bontà del proprio gioco, vollero rimanere fedeli a loro stessi fino
alla fine, ad ogni costo, senza adeguarsi, senza conformarsi agli stereotipati
canoni dell’efficacia vetero-industriale che tutto livella rendendo ogni cosa
di un grigiore indifferente. Aristocratici nel senso nietzscheano
dell’accezione, laddove il termine indica il “non volersi fare diversi da ciò che si è”, furono forse testimoni
un po’ tardivi e romantici di valori autentici, premoderni, profondamente
umani, seppur in accezione ludica, popolare, calcistica.
Credevano, gli
aristocratici brasiliani, con la superiorità e la boria che è solo dei
più forti, di vincere, eppure non fecero nulla per farlo. Il Sarrià come
Maupertuis e Nicopoli!
Si limitarono ad essere sé stessi senza
snaturarsi, a giocare semplicemente come veniva loro spontaneo, fortificati
della vana convinzione che i migliori dovessero, per legge divina, vincere comunque
sulle raffazzonate qualità della plebe calcistica: la cristallina raffinatezza estetica di Zico
(Pelè era troppo nerboruto per essere bello; Maradona al confronto appariva
persino goffo; il Ronaldo vero, il “Fenomeno”, era destituito di qualsiasi eleganza,
troppo grezzo e maleducato nei movimenti, seppur velocissimi, per poter
ricordare il più essenziale numero 10 dell’auriverde; i Messi e i Cristiano
Ronaldo potranno anche aggiudicarsi una decina di palloni d’oro “cadauno”, ma
sono troppo costruiti, fisicamente e non, per rivaleggiare con la grazia del
piccolo artista della palla verdeoro), con l’insuperata saggezza tattica di Falcao
e con la malinconica cultura umana del tragico Socrates.
Magari anche
solo per distratta empatia, patriottismo peloso a parte, in quegli anni non si
poteva che tifare per quella seleçao.
All’eroe nazionale Paolo Rossi, condannato nello scandalo sul
calcioscommesse prima del mondiale, preferisco il “dottore”, professionalmente
e nella vita, alcolista, decadente e aristocratico (seppur in salsa
sudamericana: promotore della “democrazia corinthiana” in aperta opposizione al
regime militare), Socrates.
Perché al
calcio non mancano le professionalità, i soldi, l’organizzazione, la
programmazione, i settori giovanili e le scuole calcio modello “polli da
batteria”, come vorrebbero invece farci credere i prezzolati media sportivi
postmoderni. Ne hanno addirittura troppi.
Mancano invece
i fuori-classe, gli extra-ordinari. Mancano, come nella società in cui si
riflettono, gli uomini, quelli veri, che continuino a combattere per quello che
sono: non per la vittoria, bensì per essere i migliori.
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