L’amministratore
delegato di Enel, Francesco Starace, dopo la vittoria dell’astensionismo al "referendum sulle trivelle", può finalmente prendersi una meritata pausa e raccontarsi
agli studenti della Luiss (l'Università in cui dovrebbero formarsi le élites e i "liberi" manager conf-industriali di domani).
Per fortuna gli studenti della Liberà università internazionale degli studi Guido Carli sono abituati a certe confessioni e alle lectiones che declinano, vanitosamente, nella difesa valoriale di un capitalismo senza freni.
Non è chiaro, in tal senso, se sia la stessa Facoltà a promuovere l’allentamento dei freni inibitori, o se si scelga, molto più verosimilmente, i personaggi da invitare curricula alla mano.
Per fortuna gli studenti della Liberà università internazionale degli studi Guido Carli sono abituati a certe confessioni e alle lectiones che declinano, vanitosamente, nella difesa valoriale di un capitalismo senza freni.
Non è chiaro, in tal senso, se sia la stessa Facoltà a promuovere l’allentamento dei freni inibitori, o se si scelga, molto più verosimilmente, i personaggi da invitare curricula alla mano.
Di certo non si risparmiano, e dopo la lezione sulla demolizione di ogni cultura
improficua tenuta dal
Ministro Poletti (“prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un
fico secco, è meglio prendere 97 a 21 anni”), al soglio dell’Ateneo arriva anche il titolatissimo Francesco Starace.
“Come si fa a
cambiare un’organizzazione come Enel?”, domanda incuriosito uno studente della
platea. Starace non si fa pregare e risponde con la sensibilità di un fachiro Baba: “in primo luogo ci vuole un gruppo di persone convinte su quest’aspetto. Basta un manipolo di cambiatori. Poi
vanno individuati i gangli di controllo dell’organizzazione che si vuole
cambiare. E bisogna distruggere,
distruggere fisicamente questi centri di potere. Per farlo, ci vogliono
i cambiatori che vanno infilati lì dentro, dando a essi una visibilità
sproporzionata rispetto al loro status aziendale, creando quindi malessere
all’interno del ganglo dell’organizzazione che si vuole distruggere”.
Ascoltato il soliloquio, ogni persona di buon senso potrebbe addirittura supporre che si tratti dell’infelice perifrasi di un “licenziatario
poetico”.
E invece Starace, come un panzer lanciato sulle linee nemiche, rincara la dose venendo infine allo scoperto: “appena questo malessere diventa sufficientemente manifesto, si colpiscono le persone opposte al cambiamento, e questa cosa va fatta nella maniera più plateale possibile, sicché da ispirare paura o esempi positivi nel resto dell’organizzazione. Questa cosa va fatta velocemente, con decisione, senza requie. Dopo pochi mesi l’organizzazione capisce, perché alla gente non piace soffrire”.
Applausi dalla cavea degli “aquilotti”.
E invece Starace, come un panzer lanciato sulle linee nemiche, rincara la dose venendo infine allo scoperto: “appena questo malessere diventa sufficientemente manifesto, si colpiscono le persone opposte al cambiamento, e questa cosa va fatta nella maniera più plateale possibile, sicché da ispirare paura o esempi positivi nel resto dell’organizzazione. Questa cosa va fatta velocemente, con decisione, senza requie. Dopo pochi mesi l’organizzazione capisce, perché alla gente non piace soffrire”.
Applausi dalla cavea degli “aquilotti”.
In fondo non ci si deve stupire troppo. Ad emergere è l’ethos
del capro espiatorio che s'incontra con l’applicazione manageriale di quel sistema pedagogico-veterinario che disciplina ogni essere strumentalmente: le persone, e i lavoratori nella fattispecie, vanno trattati col bastone e la carota, ché conoscendo i
dolori della verga impareranno alla fin fine, a rigare dritto.
Come fare? Creando un mercato del lavoro, così come ne abbiamo creato uno dei latticini o dei cereali, quello stesso lavoro diventa una merce al pari di tutte le altre, ove le HR devono essere precarie, flessibili, a tutele crescenti, comunque angosciate ed incerte, bendisposte ad accettare il ricatto e la sottomissione pur di laborare. "Ogni cosa è merce", vaticinava in tal senso Marx.
Come fare? Creando un mercato del lavoro, così come ne abbiamo creato uno dei latticini o dei cereali, quello stesso lavoro diventa una merce al pari di tutte le altre, ove le HR devono essere precarie, flessibili, a tutele crescenti, comunque angosciate ed incerte, bendisposte ad accettare il ricatto e la sottomissione pur di laborare. "Ogni cosa è merce", vaticinava in tal senso Marx.
E' la nuova visione ultranichilista portata
dall’imperio del profitto in cui i manager più alla moda e vincenti studiano e
vengono ispirati da L’arte della guerra di Sun Tzu, come se il luogo di lavoro
fosse l’imbarbarimento umano che si sfoga nei campi di battaglia; il mondo pre-statale
del bellum omnium contra omnes: il
posto che deve ispirare la paura dell'autorità, ove è necessario guardarsi le
spalle, usare la strategia e l’arguzia, machiavellicamente, per metterlo nel culo all’altro sottoposto, meglio
se di pari rango.
E con l'impero del profitto avanza pure il nuovo "lato oscuro della forza": l'inumanità del lavoro, la stessa che
una certa politica e un certo mondo produttivo e imprenditoriale vogliono
favorire: la “cultura” che va insegnata nella “buona scuola” o la strategia del “massimizzare
gli utili tagliando gli sprechi” incoraggiata dal modello vincente delle multinazionali e delle corporations...
Ma se davvero è questo il tipo di mondo
che vogliamo incoraggiare, forse è meglio lasciare velocemente il campo al Duca Conte
Giovanni Maria Balabam, almeno saremmo certi di essere “colpiti” per tempo,
equamente, col sorriso, benché amaro, del ragionier Fantozzi.
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