Non c’era probabilmente bisogno della
conferma giunta a mezzo stampa da Eurostat. Per accorgersi della pesante situazione in cui versano la culturae l’istruzione italiana bastava semplicemente rizzare le antenne e bazzicare
per un po’, disinteressatamente, in qualsiasi luogo in cui la fauna umana è
solita incontrarsi. Secondo Eurostat, infatti, siamo la maglia nera in Europa per investimenti in
cultura e formazione (ultimi sugli investimenti destinati all’educazione,
il 7,9% di spesa pubblica a fronte di un 10,2 % medio Ue e al penultimo posto
per quelli destinati alla cultura, 1,4 % contro una media Ue del 2,1 %. Ci
batte solo la Grecia!).
Al netto dei vuoti slogan magnificati
dal “giovine” Governo dem., i dati forniti da Eurostat sono impietosi e fotografano
due fenomeni diversi ma tra loro fortemente interconnessi. Per primo, e forse
meno grave, le statistiche dell’istituto smascherano le dozzinali balle raccontate
dal Governo sui sorprendenti investimenti che sarebbero stati destinati
alla formazione e alla cultura. La seconda istantanea che ci offre l’analisi
Eurostat pertiene ad una sfera meno percepibile ma decisamente più preoccupante
rispetto alla polemica, tutta politica, sulle mirabolanti imprese di Renzi
& Co. Non sarà infatti che in Italia
non si investe abbastanza in cultura perché non c’è una richiesta adeguata da
parte dei cittadini? In fondo con la cultura – direbbe qualsiasi medio-man del
volgo – non si mangia! E infatti a questo tipo di cittadino, insipiente per vocazione,
quando va bene, basta sapere solo che l’Italia possiede più del 50% del patrimonio culturale mondiale
(il che, peraltro, non è vero!). Si bulla del suo essere “italiano”, di tanto
in tanto, quando esce dal suolo patrio per una boccata di esterofilia, ma poi
non gliene frega nulla, fattivamente, del patrimonio culturale del Belpaese.
Quando si nomina la cultura, infatti, lo
si fa esclusivamente quando essa è solo uno strumento da barattare per acquisire una posizione migliore nel sociale
- un po’ come il Trimalcione di Petronio che esibiva i suoi libri per
compiacere la propria vanità - o per spuntare un reddito migliore (andare
all’Università serve per trovare un lavoro, come suggerito anche dal mâitre à pènser e Ministro del
lavoro, Poletti). La cultura, insomma, non serve, non ha alcuna utilità!
O meglio, solo la cultura che dà reddito
è “buona cultura”.
E’ in fondo lo stesso slogan che sottende la
“buona scuola”. Quell’impostazione
economico-razionale che trova necessario insegnare solo cose ritenute utili per
trovare poi un’occupazione sul mercato del lavoro, anziché fornire strumenti per diventare cittadini migliori,
critici e consapevoli. La medesima miopia che preferisce utilizzare il tempo
scolastico per organizzare e presenziare a meeting e convegni al solo fine di
trovare nuovi sponsor che vogliano investire qualche soldo nel proprio istituto
scolastico, anziché studiare come si dovrebbe fare a scuola. Ma gli studenti moderni non sono più
nemmeno studenti, sono comparse, presenzialisti, lacchè da trasportare da un seminario
all’altro, per far fare bella figura al Preside compiaciuto!
Alleviamo così schiere di capre titolate ma sottomesse, pronte a
genuflettersi ai desiderata del primo potente di turno, tenute in un costante
stato di necessità per sopportare col “sorriso sulle labbra” anche il ricatto
sociale che “fa girare l’economia” del precariato.
Ma la società globale dei consumi
pretende proprio questo: automi senza
spirito critico e diritto di replica, acefali e servili ingranaggi da
sacrificare al meccanismo di produzione e alle necessità sociali.
E così, magari, ci accorgeremmo pure che
quelli bravi dell’”Europa bene” investono tanti soldi in cultura e formazione solo se serve ad aumentare il Pil e a
sviluppare proprio quel meccanismo disumano
alimentato da incolti replicanti…
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