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martedì 15 aprile 2014

La politica del marketing e il popolo che l’ha in-sediata


Come un’ossessione che torna a ricordarti la tua patologia, come un rigurgito che trasale di tanto in tanto, quando vieni colto dalla compulsiva noluntas di accendere il televisore per occultare l’autocoscienza, Berlusconi ritorna a far capolino tra le cronache del Belpaese.
Niente da fare per la sua pletora di legali. Il tentativo di bloccare il passaggio in giudicato della pena accessoria all’interdizione per due anni dai pubblici uffici, a causa della condanna nel processo Mediaset, non viene accolto dalla Cassazione.

Con la sentenza emessa viene di fatto preclusa all’ex Premier la possibilità di candidarsi alle elezioni europee del prossimo maggio (l'affidamento ai servizi sociali non ne scalfisce l'agibilità politica, benché la preoccupazione sulla successione rimanga un problema ineludibile). Al di là dei meri aspetti giurisprudenziali, che lasciamo volentieri a coloro che lucrano da anni sulla figura dell’ormai ex Cavaliere, è già partita la speculazione, più mediatica che sostanziale, sul toto post-Berlusconi. La rincorsa al sedicente sostituto, che si sussegue ossessivamente frammista ai borbottii e alle allusioni sui potenziali candidati capaci di sostituirne il nome a “dovere”, risponde ad un’unica propedeutica caratteristica comune. Una rassegna di candidature a cui non debbono corrispondere, come sarebbe lecito aspettarsi in democrazia, competenze o qualità particolari, ma a cui viene invece richiesto, ben piantati in quella società dell’immagine e della nominazione che sublima, di portare il cognome del leader caduto momentaneamente in disgrazia. Non importa se il “legittimo” successore sia la primogenita Marina o l’avvenente Barbara, oppure ancora il rampollo Piersilvio, ciò su cui sembra non si possa proprio trascendere è che faccia parte della gens berlusconiana. 

Un concetto di democrazia padronale, dinastico, patrimoniale, come lo era la gestione del regno prevista dalla lex salica, che però si mescola oggi, pericolosamente, al concetto democraticamente pubblicitario di brand. Chi porta insomma il cognome dei Berlusconi fa ormai parte di un marchio pubblicitario, sponsorizzato da quello stesso popolo che è ancora disposto ad accordargli credito e fiducia.

politici venditori

Una politica promozionale, quella in-sediata da una “res publica” che ha ormai delegato al vertiginoso consumo di spot la propria autorevolezza democratica. 
Non è in fondo verosimile che quella stessa politica, come ogni prodotto commerciale vuole essere anzitutto venduto, abbisogna del volano pubblicitario per estendere il proprio mercato
Se la politica è voluta diventare una merce tout court, non può stupire se il consenso viene misurato esclusivamente attraverso l'appeal di vendita. Per dirla sbrigativamente con Bauman: “ una società che predilige prodotti pronti all’uso, soluzioni rapide, soddisfazione immediata, risultati senza troppa fatica, ricette infallibili, assicurazioni contro tutti i rischi e garanzie del tipo soddisfatto o rimborsato, finisce inesorabilmente per affidare il proprio consenso ad un simulacro che ne incarni la sola qualità riconosciuta: la promessa di un benessere-merce quantificabile in termini economici, prodotta dal soddisfacimento di un immaginario costruitosi sugli spot. Si ha così la crescente sensazione che questo ”popolo” vada a votare con la stessa tensione con la quale riconosce prodotti sugli scaffali di un qualsiasi supermercato, salvo poi lamentarsi dell’errato acquisto.

Laddove all’epoca dei carolingi, o dell’altomedioevo in generale, ci si doveva sottoporre ad un altro uomo per sopravvivere (da cui la famosa formula feudale “essere uomo di un altro uomo”), in democrazia ci si affida scientemente a qualcuno che “buchi il video”, ad un bravo "venditore di pentole" qualunque. Un’autorità, quella democratica, che sembra così costituirsi esclusivamente grazie alla rinuncia di sé stessi per consunzione. La democrazia zapping, ma in HD. Per dirla col “profetico” Pascal: democrazia: non essendosi potuto fare in modo che quel che è giusto fosse forte, si è fatto in modo che quel che è forte fosse anche giusto”.
Siamo quindi passati da una dipendenza dettata dalla sopravvivenza, ad una dipendenza per mancanza di volontà. 

In tal senso, era meglio Carlo Magno. Almeno a quel tempo, per retrocedere a mollicci strumenti padronali, non avremmo dovuto sorbirci ore di vuoti televisivi e tonnellate di supposte pubblicitarie. Ma in fondo, Berlusconi e la sua tv generalista, sono forse solo l’ennesimo strumento che il popolo ha reificato per continuare belluinamente a darsela a bere, vittime inconsapevoli di quello stesso meccanismo che li aveva sostenuti sin lì. Come un prodotto che non seduce più viene rimpiazzato con un altro “alla moda”, Berlusconi perde simbolicamente la “sua” scena. 
Quel palcoscenico di elettori però non sembra aver ancora abbandonato il bisogno di trovare un pifferaio magico da cui farsi guidare. Ne sa qualcosa anche il non eletto a furor di “popolo” Matteo

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