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giovedì 16 marzo 2017

I lavoratori al servizio di un algoritmo

Se il mondo globalizzato è connesso da strettissimi vincoli d’interdipendenza, l’uomo che ne abita i danteschi gironi, sembra essere, al contrario, prigioniero di una società di scatole cinesi (“libero”, nella orwelliana neolingua globale, significa “legato”, alla maniera di ciò che diceva, in tempi non sospetti, pure Stirner:se tu fossi libero da ogni cosa, non avresti per l’appunto più niente”).

I creatori di Matrix ne saranno forse persuasi, ma la realtà, come spesso accade, corre più veloce della stessa fantasia. Ci osservano, ci misurano, ci giudicano, col beneplacito, spesso, degli stessi impiegati-strumento di turno: “vediamo se sono all’altezza della società, se posseggo il pedigree “giusto” per essere quantificato”, “adatto” soldatino nelle mani degli idola tecnologici (non passa nemmeno per i loro smartfonistici cerebri, l’idea di mettere in discussione quel modello demenziale: “chi mi dà poi il certo-fecato, l’attestazione di buona condotta? Come faccio a sapere se servo? Se sono utile alla comunità?”).
Abbiamo delegato, nel nome di un inarrestabile progressismo ideologico, questo compito alle macchine, ai software di profilazione, assicurando loro il ruolo di nuovi sacerdoti, oracoli che posseggono una verità assoluta fatta di asettiche formule ed algoritmi universalizzanti (vuoi mettere con la singolare discrezionalità di una “personae” che potrebbe sbagliarsi…).

E così, quasi senza accorgersene, il labortatores della nuova “gig economy”, lo stesso che vomita bile sui social e s’incazza, comodamente, stando sul divano di casa, sarà costretto a fare i suoi lavoretti per una compagnia che non ha impiegati, scioperare contro il giudizio di una app, avendo come padrone un  oggettivo algoritmo e licenziato, altrettanto comodamente, via sms. Proprio di questo, infatti, dovrebbe occuparsi il nuovo “modello vincente”, alias management algoritmico. Lo dicono gli addetti ai lavori (di taglio, meglio se lineare), quelli che hanno studiato “gegneria” et similia, che questo nuovo modello di successo andrà via via sostituendo i guru delle human resources in carne ed ossa (che già avevano, precedentemente, studiato da automi).


Succede già, specie dalle parti delle aziende trendy, quelle "aaavanti" dalla tripla A, ex startup votate al cosmopolitismo col vizio del capitale erasmus: dai magazzinieri di Amazon ai baristi di Starbucks, dai fattorini di Foodora e Ups ai commessi di Walmart e Uniqlo, fino agli operatori di Uber (le azienducole ritardatarie, se vorranno stare sul mercato e non perdere in competitività, saranno presto costrette ad adeguarsi allo stesso “circolo virtuoso”).
Ad esempio: gl’impiegati di Uber vengono cacciati ricevendo un sms, qualora la valutazione del cliente scenda sotto la fatidica soglia dei 4,7 punti; Walmart sottopone i candidati all’assunzione e i dipendenti a “test di personalità” (chissà che non ne abbiano troppa!) per la gestione dei curricula e delle carriere (il chip della carriera di Futurama è dietro l’angolo...).
Un taylorismo 2.0, una nuova Rivoluzione industriale raddoppiata, il 4.0!

Peccato che, sfiga delle sfighe (altrimenti sarebbe davvero un mondo perfetto, omogeneizzato e fisiologicamente prostrato!), esistano anche gli uomini. Ma per ora, sembrano talmente contentoni di familiarizzare coi loro smartphone, che non sentono ancora il suono strusciante del guanto in lattice e l’odore neutro della vaselina. 
Evidentemente, non è solo il sole ad essere in poppa verso il nuovo, illuminato, avvenire… 

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