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lunedì 30 maggio 2016

I vate e i Tiresia dell’economia lo certificano: in Italia crescono gli inoccupati cronici

Se non si appartiene alla parrocchia di quelli che “homo more datus demonstrata, per fare il verso a Spinoza, ma si crede che il dato tracci solo una tendenza, spesso nemmeno troppo verosimile rispetto all’irriducibile realtà, si potrebbe persino ghignare delle ultime rilevazioni targate Eurostat.
L’Istituto europeo di statistica ha infatti certificato che nell’ultimo trimestre del 2015, l’Italia è diventato il primo Paese dell’Eurozona come numero di disoccupati che sono entrati nella totale inattività economica. Gli addetti ai lavori li definiscono con la poco lusinghiera etichetta di “inattivi cronici”: il 36,5% del totale, circa il doppio rispetto alla media europea che si attesta invece al 18,4%.

I dati sulle “rinunce” e sull’assoluta estromissione dal mercato del lavoro sono più alti anche rispetto a Paesi macroeconomicamente peggiori dell’Italia: in Bulgaria, nello stesso periodo, ha completamente smesso di cercare lavoro il 14,5% dei disoccupati, in Romania il 19,2%, in Slovacchia il 4,9%, nella Repubblica Ceca il 13,8%, in Portogallo il 17,2%, in Spagna il 14,1%, e in Francia il 18,6%.
Al di là dell’algido ed impersonale participio passato (dato), per spiegare le motivazioni di questa cronica frustrazione e mancanza di speranza verso il futuro non serve riesumare il Tiresia del mito di Edipo. Forse è colpa del lavoro nero che non entra nel computo delle rilevazioni, forse siamo solo più emotivi degli altri popoli, fragili, appallati, poco tenaci, fisiologicamente propensi all’adagiamento, forse invece il motivo non pertiene a nessuna delle precedenti allusioni, o magari si potrebbe avanzare un tentativo di spiegazione solo incrociando le tante ipotesi. O forse ancora le cose sono persino più semplici di quanto sospettato. L’uomo contemporaneo, anche nella sua “nobile” declinazione lavorativa, è un uomo che non riesce a stare più nella propria pelle. Anonimo ma schedato e datato, spersonalizzato strumento, servo compiaciuto dal salario, per dirla lucidamente con Lyotard: “nel mondo tecnoscientifico siamo come tanti Gulliver, troppo grandi o troppo piccoli ma mai sulla scala giusta”.

inoccupazione

In ogni caso, al di là dei potenziali chiarimenti del fenomeno, la logica spicciola rende almeno una questione verosimile: la crescita dell’inattività, paradossalmente, fa diminuire proprio la disoccupazione. Perché? Perché il tasso di disoccupazione si calcola dividendo le persone in cerca di lavoro per la forza lavoro (in Italia le persone dai 15-24 anni). In tal senso, se gl’inoccupati aumentano, evidentemente diminuiranno anche le persone in cerca di lavoro, a meno che non si postuli che quegli stessi individui non evaporino nel nulla: “lontani dagli occhi, lontani dal cuore”. La logica ragionieristica è di facile intuizione: se, a parità di denominatore, il nominatore (persone in cerca di occupazione) cala, il risultato sulla disoccupazione cambierà proporzionalmente alla diminuzione: ad esempio, dividere per due 10 persone in cerca di occupazione anziché 8, farebbe calare il dato percentuale di disoccupati (con presumibile compiacenza dei Governi di turno).

E infatti proprio ai "Governi bene" converrebbe aumentare silenziosamente l’inoccupazione, perché in fondo sugli inoccupati è più facile far calare il silenzio dell’oblio. In fin dei conti sono fannulloni, incapaci, lavativi che non hanno santi in paradiso, né rappresentanze sindacali. Meglio allora truccare un po’ i dati, sistemarli alla bisogna, perché alla fin fine ogni “buon governo” vuole fare primariamente una bella figura…

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