La retorica del “riformismo” e del “progressismo”, come ogni retorica che si
rispetti, nasconde ed occulta la verità. E’ fumo negli occhi, di quello denso, del quale
ci si riempie pure la bocca nell’agone politico tra partiti. Questo vuoto riformismo, oggi, è stato persino assurto a deux ex machina per sbrogliare ogni problematicità, indispensabile panacea per giustificare ogni immobilismo, il principale slogan di coloro che tendono al mantenimento dello status quo, la giustificazione stessa dell'inettitudine di chi ha voluto fare del dinamismo una religione: quella del fare tanto per fare. In realtà è semplicemente un nuovo trucco per imporre, ancora una volta, la superiorità dello
Stato, e il primato della politica, sul “minore” cittadino democratico.
I "de-formatori" di ogni segno e colore, sentono infatti il bisogno di cambiare le regole del gioco affinché l’inerme cittadino, che si era sin lì affannato per capirle (e magari ci era persino riuscito), non comprenda infine più niente.
Questo stomachevole riciclo-formismo, checché ne dicano gli
stregoni democratici, è così solo ed esclusivamente una modalità con cui quegli
uomini (politici, tecnici, burocrati), sopravvivono a sé stessi.
Per conservarsi ognuno nel proprio ruolo e primato, non debbono
infatti permettere che il cittadino possa capire ed intromettersi nel loro placido intrallazzare. E cambiano così, gattopardescamente, solo le forme (nell'ottica di quella staticità mobile a velocità zero del: "cambiamo tutto per non cambiare niente". In tal senso, questo pseudo-riformismo è il più subdolo tra i conservatorismi).
Innovano, riformano, si superano lasciando tutti gli altri al palo. Cambiano le carte in tavola repentinamente, le rimescolano, sempre e solo nel tentativo di confonderle.
Innovano, riformano, si superano lasciando tutti gli altri al palo. Cambiano le carte in tavola repentinamente, le rimescolano, sempre e solo nel tentativo di confonderle.
Come
nel gioco d’azzardo, sanno bene che alla fine il banco vince sempre: è lui, in
fondo, a fare le regole di quel “divertimento” che non diverte più nessuno.
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