CERCA NEL BLOG

lunedì 21 luglio 2014

La crisi si aggrava: nuovo default all’orizzonte

I media sono bizzarri, almeno nel loro sacramentale compito di latori d’informazione. Possiamo scoprire così di sapere ogni cosa sugli ultimi selfie e spostamenti della Satta o della Canalis (che peraltro condividiamo ossessivamente, ché la mitizzazione del modello è direttamente proporzionale alla pochezza dell’idolatra. Sacra romana ecclesiae docet!).
Possiamo addirittura conoscere quante volte il Balotelli nazional-pop è andato di corpo, eppure i telegiornali più seguiti, magari proprio per non turbare il mondiale appena concluso, non hanno sentito alcun bisogno d’informarci che l’Argentina rischia in questi giorni un nuovo default tecnico, una nuova crisi finanziaria.
Ma si sa, è la democrazia bellezza applicata agli organi d’informazione: l’informazione moderna riempie ma non spiega, ché in democrazia tutto è equivalente, insapore (sapio = ho sapore = so).

La Corte Suprema americana, convalidando la sentenza emessa più di un anno fa da un giudice dello Stato di New York, ha decretato la vittoria legale dei fondi spazzatura sulla richiesta argentina di ristrutturazione del debito. 
Un duplice schiaffo all’Argentina e alla sua, mai eccessivamente lampante, per la verità, sovranità nazionale (la spinta della nota "dottrina Monroe" non sembra essersi mai completamente esaurita). 
Se da una parte i “saggi” respingono così l’appello presentato da Buenos Aires, confermando di fatto la precedente decisione che impone per intero il pagamento di 1,3 miliardi di dollari a favole degli hedge funds titolari di “tango bond” andati in default, dall’altra stabiliscono inoltre che coloro che possedessero quote di bond argentini possano far ricorso alle corti statunitensi per costringere l’Argentina a svelare le proprie proprietà e i propri beni, facilitando in tal modo il recupero dei crediti. 

L’Argentina si trova quindi, nel silenzio quasi totale dei media ortodossi, per usare il gergo degli analisti finanziari, “tra la spada e la parete”. Di fatto la sentenza, scavalcando qualsiasi organismo internazionale e creando i presupposti di un pericoloso precedente, impedisce così a qualsiasi stato di rinegoziare la ristrutturazione del debito. Proprio quella, accettata dal 93% dei creditori, che permise all’Argentina stessa di superare il default e la crisi del 2001, e che fu peraltro accordata pure alla retta e moralizzante Germania, sia nel 1953 che nel 1990.

L’enorme ed ormai incontrollabile sproporzione tra finanza globale ed economia reale sembra, a tal proposito, far sentire i muscoli della propria potenza anche a livello legale. Essa, pare suggerire implicitamente la sentenza, non si accontenta più di superare dalle 10 alle 14 volte la produzione reale, surclassandola, ma pretende di essere anche moralmente migliore di essa (a seconda delle traballanti, ma autenticamente oggettive valutazioni degli addetti ai lavori, già nel 2008, ad esempio, sommando la dimensione del mercato dei derivati - 668mila miliardi di dollari - alla filiera della finanza più “tradizionale” - 167mila miliardi di dollari -, il rapporto tra la finanza in generale e il Pil mondiale - 60.600 miliardi di dollari - era di 14 a 1. Oppure ancora, continuando a cavalcare l’incorruttibilità dell’assoluto numero: la mole di "denaro" che il commercio delle valute con finalità speculative riesce a movimentare in meno di una settimana equivale all'intero import-export mondiale di un anno -15.000 miliardi-).

default

In questo incontrollabile e demenziale contesto neo-neocoloniale, mentre l'economia di carta tiene per le palle quella reale, gli Usa fanno lo stesso con l’Argentina e il suo popolo, e sono pure legittimati dalla legge a farlo, oltre che dalla supina doxa dell'homo oeconomicus, quella utilitarista che ha edificato il do ut des ad unica forma sociale tangibile in denaro. 
O meglio: Wall Street e la Borsa declinata nella sua accezione moderna moderno, quella che Simmel chiamava profeticamente il regno della “razionalità pura” (zweckrational), avendo vinto il rapporto numerico di forza con l’economia reale può, d’ora in avanti, avere l’ultima parola su decisioni capaci d’incidere radicalmente sul benessere economico dei popoli e delle vecchie nazioni. Ma questo, in fondo, non è altro che la conseguenza logica e prevedibile della forma mentis che l’etica capitalista ha operato sulla percezione degli uomini (per la verità il rapporto andrebbe invertito: l’uomo ha trovato, dopo un peregrinare durato qualche millennio, un pensiero a cui sottoporsi, che lo guidi “assolutamente”, certo e verificabile. Così da poter finalmente coronare il sogno d’essere schiavi nell’autoillusione del contrario. E l’ha reificato, perversamente, addirittura al di sopra di sé stesso: tutto viene così ritradotto in termini razionali, quantitativi, in denaro. Per dirla con Rifkin: “in tutta l’età moderna il valore degli individui è stato misurato con il valore di mercato del proprio lavoro”). 

La non-cultura del calcolo e della contabilità, del virtuale computistico, del mezzo appropriato ai fini, della téchne, della razionalità e della misurazione dell’intero esistente è finita, in un cortocircuito ossimorico, per produrre paradossalmente un informe “qualcosa” del tutto irrazionale (si pensi, quale astrazione simbolica di tale schizofrenia del cogito, ai Financial Futures o alle opzioni knock-out, scommesse sulle scommesse, o sul nulla: il futuro. Ormai si traffica e si vende anche ciò che non esiste. Ma che importa se poi l'inesistente si fa esso stesso "ricchezza", Pil).

E così, senza che neppure ci si accorgesse, questa razionalità astratta, pura, in barba ad ogni principio di realtà, ha prodotto paradossalmente un mondo inverosimile e irrazionale. Un mondo artificiale sfuggito al controllo del suo artefice: l’andamento delle borse mondiali, sull'onda del successo finanziario dilagante, ha già ampiamente superato i livelli pre-crisi, mentre quello dell’”economia reale”, al contrario, ancora langue. Si sta peggio, in Italia come altrove, eppure dovremmo essere paradossalmente più "ricchi"...  
Un mondo da favola, da "operetta", iperbolico, ove la progressiva scissione tra il meccanismo finanziario e l’umanità ha già più volte lasciato trasparire i segnali del suo epilogo. 
L’8 marzo del 1996, ad esempio, la Borsa newyorkese crollò, trascinando nel barato le consorelle minori europee, alla notizia che nel febbraio precedente si erano creati più di 700mila posti di lavoro
Pochi anni prima l’indice Dow Jones salì alle stelle per una proiezione di segno opposto: la Xerox licenziò decine di migliaia di lavoratori per “efficientare” i propri utili (ciò che è successo, per rimanere più vicini alla stringente attualità, anche qualche giorno fa con le azioni della Microsoft, i cui valori sono saliti precocemente alle stelle dopo l’annuncio del taglio di 18.000 posti di lavoro a seguito dell’acquisizione di Nokia).

Ci stiamo, insomma, uccidendo con le nostre stesse mani... e andiamo allegramente incontro al fatal destino dei default e delle crisi finanziarie con la sfrontatezza di un Re Mida che nulla ha imparato dalla propria protervia e ingordigia.


Nessun commento: