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venerdì 27 dicembre 2013

Forconi e forchette: la solita Italia


Se è lecita la compassione per la sofferenza e per il dolore, soprattutto da parte di tutti coloro che li hanno sempre interiorizzati, se li sono tenuti per sé fino a quando, evidentemente, la misura non è stata colma, permane tuttavia ancora la maldestra sensazione che il malcontento sociale italiano di questi giorni presti comunque il fianco all’esercizio del cinismo.
La protesta che ne emerge è infatti di sistema, nel senso che reagisce alla struttura ma solo perché vorrebbe esserne maggiormente inclusa. Così come, atavicamente, l'italiano, e con esso il "forcone" che sembra trasudarne la quintessenza, si accorge del "bene comune" solo se esso coincide col proprio bene, allo stesso tempo trasale la percezione che egli avverta il peso della crisi, e con essa pure dello Stato "vessatore", solo se ne viene colpito in prima persona. 

La forza di questo malcontento in salsa italiota non sta quindi nella pleonastica idealità ma, ben piantata in quella società democratica e del benessere a cui si richiama, nella stretta praticità. Una protesta che, a ben vedere, accorpa interessi particolari che solo accidentalmente collimano in un cahier de doléance comune (un po' come nella Favola delle api di de Mandeville, ove la ricerca egoistica del proprio interesse favorisce implicitamente l’interesse pubblico dell’intera società). E infatti, in barba ad ogni astratto "bene comune", si sta già muovendo qualcosa dalla parte di coloro che sostengono, altrettanto legittimamente, interessi divergenti rispetto a quelli che stanno agitando il Comitato del 9 dicembre: gli esercenti che vorrebbero tenere aperti i loro esercizi commerciali e i lavoratori che, tacciati di poca solidarietà (ma in realtà anche loro solidali anzitutto con sé stessi), se ne fregano chiedendo invece di poter lavorare tranquillamente.


Anche Alfano e Letta, da uomini politici navigati, hanno capito che sarà sufficiente mettere questi diversi interessi l’uno contro l’altro per far velocemente evaporare la protesta di quella “minoranza”. Alfano, nella fattispecie, rimesta già lo spettro dell’“eversione antidemocratica” e, molto più puntualmente, il Primo Ministro va ripetendo, peraltro non a torto, che i manifestanti non sono l’Italia intera.

In questa zuffa per gl’interessi particolari, come spesso accaduto nella storia, sarà quindi sufficiente accontentare una parte di quel presunto movimento unitario per decretare il fallimento della fortuita coesione popolare. La mai dimenticata strategia del divide et impera, che funziona solo incontrando l’inclinazione alla volubilità del “popolo sovrano”.
Quella dei "forconi" sembra solo l'ultimo esempio di quelle paradossali rivoluzioni democratiche ma per gli interessi individuali o delle corporazioni, per cui si chiede esclusivamente che venga vessato qualcun altro, n’importe quoi, purché il fardello dell’oppressione statale lasci la presa da chi si lamenta in quel momento (da cui il popolare adagio, ma dall'essenza fortemente individualista: "meglio te di me").
In realtà, esaltando quei particolarismi oggi così denigrati, si potrebbe anche facilmente nobilitare quella protesta “di parte”. Non è ai padri costituenti e alla Costituzione, né alla democrazia o al tricolore, che ci si dovrebbe infatti richiamare, ma alle radici che, sedimentatesi nei secoli, hanno composto il profondo sostrato della cultura e della morale italiana.

Un non-popolo mediterraneo che ha fatto delle diversità di campanile un patrimonio di cui adesso si vergogna; un non-popolo anarcoide che si unisce solo per le partite della Nazionale di calcio; un’accozzaglia eterogenea di genti per cui l’istituzione con la “i” maiuscola rimane ancora la famiglia e non lo "stato", la patria o la nazione; un non-popolo profondamente contraddittorio e sfuggente, che ha voluto ironicamente chiamare la più compiuta espressione sociale dell’individualismo col termine di Comune e ha fatto al contempo della propria storia un melodramma.

Non siamo tedeschi né americani, per l’italico popolo ancora oggi, benché inconsapevolmente, il “bene comune” è il “proprio bene”: “Franza o Spagna purché se magna”.
E fintanto che non ci si vergognava ancora di questa singolarità fisiologica, come osservò il romantico libertario Lord Byron agli inizi dell’Ottocento sull’Italia: “non c’è legge e non c’è governo ed è meraviglioso quanto le cose funzionino bene”.

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