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venerdì 22 novembre 2013

La filosofia morale del cinico pirrone


Per l’uomo naufragato nell’esistenza, sempre più immerso nell’abisso delle ruzzolanti maree, in attesa continua di una nuova deriva, cosa potrebbe rappresentare la vita, quest’eco che rimbomba nel silenzio dello spazio vuoto che lo abita?
Da quando l’uomo ha calpestato la polvere di questo mondo, nella notte dei tempi, sembra abbia usato ogni briciolo di forza ed ogni goccia d’ingegno per distrarsi dalla vita a cui il suo “essere al mondo” lo richiamava insistentemente.

Pare anzi che, con buona pace del pigro Darwin, il senso evolutivo per quest’”individuo sfibrato” sia addirittura quello di stordirsi, per scordare infine, grazie a tutti quei palliativi rettorici, che via via ha “in-cogitato” nel corso dei millenni, di vivere (il travaglio unito al sudore della fronte di biblica memoria ne è un esemplare archetipo). Se volessimo stringere in una sintesi l’intera storia dell’umanità potremmo facilmente condensarla in un sommario slogan: l’uomo complotta contro la vita. Una vita che, per usare una perifrasi niezscheana, non è altro che un “caos per tutta l’eternità”; l’esistenza fa nascere un’angoscia che spinge questa specie d’individui a cercare lenitivi e sedativi per far fronte a quest’incalzante e terribile verità.

Egli così, stanco di essere preso a cazzotti da quell’esistenza deprivata da ogni assolutizzante senso, le ha preferito oggi persino il vuoto,  persino quell’horror vacui che l’uomo medievale, dopo Aristotele, temeva sopra ogni cosa. Ciò che è vuoto non ha infatti una massa che possa essere sollecitata dalla sofferenza.
Nessuna specie animale aveva mai ideato un rimedio tanto efficace contro un pericolo incombente. Il suo mortale assioma non lascia alcuno spazio all’interpretazione: ammazzo ogni cosa che ancora vive giacché ho capito che tutto ciò che è vita, proprio perché è tale, è anche un provar-si nella vita, un patire di sé.

Il senso per colui che è stufo di “stare al mondo”, consunto e sciupato per quel faticoso dovere, non è forse il de-vertere lontano da ciò che può intercettarne la sofferenza, lasciandosi morire, ché solo questa morte può permettergli di sopportarne il peso? Nascondersi nelle fedi collettive e nelle metafisiche consolatorie come unico contraccettivo sterilizzante il dolore, sola panacea in grado di narcotizzare la vita in una mortale volontà del nulla.
Divertimento. – Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno deciso di non pensarci per rendersi felici”.
“La vita e nient’altro che la vita”, direbbe quindi l’impotente afflizione di quest’uomo prosciugato, questa specie addomesticata al suicidio. Come se in qualche modo la vita stessa possa essere qualcosa da cui placidamente astrarsi, da cui pren­dere facilmente le distanze.
E così, laddove la so­cietà predilige edu­care orde di stanchi puch ball di carne e di uomini che schivino l’esistenza per non venirne schiac­ciati, dando per giunta a questo tipo di “for­mazione alla rinun­cia” il nome di “buona educazione”, io preferirei un’opposta tipologia di esseri umani.
Pirro

Un uomo aristocratico forse, che voglia “dire di sì” all’esistenza persino nei suoi aspetti più terribili, più dolorosi e più oscuri. 
Un topos di uomo “scettico” che non crede più negli dei moderni e antichi, né alle metafisiche categorie di valore, né tantomeno alla scienza –fisica della meta -, ma ciononostante accetta a muso duro di vivere, assumendo su di sé il compito di dare un ordine laddove la “legge” manca assolutamente, divenendo così “responsabile di tutto ciò che vive, di tutto ciò che, nato dal dolore, è destinato a patire della vita”.

Detto in altri termini: si vale a seconda del quantum di dolore che si è in grado di sopportare, di volere su di sé. Quest’atteggiamento nato dalla disillusione è lungi però dall’essere una sbrigativa dichiarazione di disimpegno, un facile ”affrancamento” da quei vincoli che fungevano da cardini esistenziali, rassicuranti “stelle polari” a cui volgere lo sguardo per trovare un’obbligata direzione: è al contrario un’amara presa di coscienza, una volitiva accettazione delle “regole del gioco”, un sì alla vita incondizionato.
Accettare attivamente, facendosi al contempo passivo bersaglio dell’esistenza, significa anzitutto volerla vivere totalmente in ogni schizofrenico punto in infinitum; lasciandosi colpire da tutto ciò che va via via presentando, di gioioso e di terribile, ed accogliendo ogni polisemica sfumatura che dalla vita si propaga come un qualcosa di voluto in ogni singolo riverbero; illudendosi magari che quella sfuggente policromia non sia altro che una propria inconsapevole proiezione, il proprio camusiano masso senza posa, la manifestazione stessa della propria volontà di essere interamente vivo.
Il sigillo della raggiunta libertà è così in realtà una terribile testimonianza d’impotenza, un arrendersi alla necessità di vivere, il non declinare da questa responsabilità.

E così la libertà non è più un fare tutto ciò che si vuole, ma un volere tutto ciò che si fa, un patire la propria consapevole impotenza e tuttavia proseguire nel suo esercizio; un “voglio lasciarmi penetrare dalla vita”; un “desidero essere illuso dall’esistenza per poterla così assaporare pienamente”, in tutte le sue infinite sfumature, in ogni singola striatura.
Desiderare trae infatti la sua origine da de- “cessare” e sidus, -eris “stella, astro”, e quindi il suo senso etimologico traslato potrebbe essere: “cessare di contemplare le stelle a scopo augurale” e quindi “bramare”.  Un’esigenza di possesso che si avvita continuamente su di sé, alimentandosi della propria stessa impossibilità, che nulla è in grado di dominare se non la reiterazione dell’inseguimento, nell’infinita tensione della proiezione riflessa: come il Piccolo Principe osserva le stelle brillare di notte e pur sapendo che non potrà rintracciare nell’arco celeste il proprio astro, considera ogni bagliore amico, incremento della tensione che si nutre del nostalgico trasporto verso l’orizzonte irraggiungibile della propria stella. Nietzsche ebbe a dire a tal proposito: si ama il proprio desiderio e non la cosa desiderata”.

La sképsis quindi come inesauribile ricerca verso un’irraggiungibile meta, unico infinito tentativo di mantenersi presso la vita, di viaggiare alla stessa velocità verso un luogo dell’ovunque che abbisogna di essere continuamente celato, spostato in avanti: un’immensità che non deve essere colta se non nella durata della sua ricerca. Laddove i “risentiti con lo spirito” hanno anteposto la volontà di trovare scorciatoie a quel desiderio, lo scettico aristocratico ha deciso, per potenza e rispetto, di onorare la vita nella misura in cui gli pone di fronte ostacoli sempre più grandi.

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