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venerdì 16 settembre 2016

La battaglia ermeneutica dei dati

Il dato, essendo un participio passato, è sempre, irrimediabilmente, ex post. A posteriori per definizione scientifica, sembra aver acquisito persino l’autorevolezza per oleare di oggettività il posteriore di ogni buon credente.

La stucchevole battaglia dei dati, tra ermeneutiche posticce ed interpretazioni partigiane, si tinge, anche nel secondo trimestre dell’anno, delle solite evoluzioni funamboliche. Da una parte il Governo, visibilmente eccitato, celebra le prodezze del proprio operato: aumentano gli occupati, cala la disoccupazione, la volta buona is coming. Dall’altra parte i soliti gufi pasticcioni, rosiconi porta sfiga buoni solo a disfare le res gestae dei magnifici: aumentano i licenziamenti, calano i rapporti di lavoro a tempo indeterminato, improvvisa moria di peluche.
Chissà se qualche osservatore bontempone, nel marasma delle guerre intestine a posteriori, si è pure accorto che quei reificati dati riguardano i mesi di aprile, maggio e giugno. Chissà se qualche spettatore dei volteggi dell’Istat riuscirà ad affermare con certezza che a maggio stava in panciolle.
Anzi – così desiderano i latori di ogni certezza – dovremmo persino essere grati ai dati perché hanno certificato che tre mesi fa si stava proprio bene. O terribilmente male, ma è una questione di dettagli, di dati, appunto.


E pensare che Nietzsche, in tempi non sospetti, anticipò le frenesie dei gonzi delle astrazioni scientifiche: ”il numero è il nostro grande mezzo per renderci il mondo maneggevole. Comprendiamo tanto quanto possiamo contare”. Da quel momento si è progressivamente deteriorato ogni rapporto tra il dato numerico e la vita vissuta.
Lo scollamento con l’esistenza è evidente, eppure noi, col tonto ottimismo di Candide, abbiamo deciso che proprio il dato sia l’unica certezza a cui assicurare le nostre speranze, i nostri progetti, e le nostre esistenze cifrate

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