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giovedì 21 luglio 2016

Apologia della storia: una scienza approssimativa, umana

Per Marc Blochil bravo storico è come l’orco della fiaba. Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda”. La metafora sulla “maniera” storiografica avanzata dallo storico dei Les Annales sembra oggi più desueta che mai. Lo storico-orco, cacciatore, onnivoro di dati, di tracce, di segni e di testimonianze umane, sembra irrimediabilmente cozzare contro la nouvelle vague, tutta contemporanea, che fa capo alla nuova umanità multitasking, iperspecializzata, fatta non più da uomini-interpreti ma da professionisti e qualificate cavie, in ogni settore ed ambito (il bello di quest’iper-specializzazione è che mette al riparo l’iper-specializzato di turno da ogni possibile contestazione. Ma come? Sono io ad avere il titolo e la qualifica! Tu non sei niente, almeno nel mio campo di competenze. Della serie: ognuno al suo posto… la tana salvi tutti per un’umanità sbriciolata che vuol essere solo strumento utile ad altri uomini in-organici).

La natura “liquida”, per dirla con Bauman, insieme alla crescente specializzazione delle professionalità che, sole, finiscono ormai per sostanziare anche la rispettabilità degli uomini, sono pericolosamente penetrate nelle questioni di metodo, persino in quelle nobilitanti l’esistenza legate al sapere. Oggi la storia, e la cultura più in generale, si fanno, quando va bene, su Focus e su qualche elitaria rivista redatta dalla solita stantia partita di giro che “se la suona e se l’ascolta”. Scartabellano un autoerotismo peloso, autoreferenzialmente, tanto per sentirsi equamente appartenenti ad un club che “sa le cose”. Ma è proprio questo loro ammorbante sapere che deve, per vanità, essere “liquido”, multitasking e specializzato.
E così, alla casta di storici-postmoderni interessa esclusiva-mente sapere quante volte il condottiero di turno si è fatto la toilette, quanti avversari si sono fronteggiati, su quante file, e se queste erano pari o dispari (per il secondo conflitto mondiale, particolarmente apprezzato da un certo pubblico di appassionati, si arrivano a toccare parossismi insospettabili, degni persino di una sceneggiatura hollywoodiana: quante cartucce sono state sparate il giorno tal dei tali? Insomma: l’importante, deontologicamente, è concentrarsi sempre sul superfluo).

marc bloch

Questo sedicente tipo di storico gossipparo, alla moda, continuamente alla recherche di spazi pubblicitari e palinsesti prezzolati, sembra procedere analiticamente per compartimenti stagni – alla faccia dell’interdisciplinarietà introdotta proprio dalla Scuola dei Les Annales -, per sezioni scollegate le une dalle altre, quasi fosse un complesso mosaico ove le singole tessere e i frantumi sono più importanti dell’effetto complessivo. Se è pur vero che, come diceva già Nietzsche, “il tutto non è più un tutto”, questi odierni “ultimi uomini” con la patente culturale non sembrano saper pensare al di fuori della rinsecchita procedura analitica. Fanno loro il metodo cartesiano, ma solo la prima metà di esso.
Sono uomini frazionati, atomizzati, sezionati in tranci, incapaci di far dialogare quei finissimi frammenti per pervenire infine ad una sintesi unitaria. Che senso ha, ad esempio, conoscere tutte le dietrologie e ogni documento o scarabocchio sull’armistizio dell’8 settembre, se poi non si giunge anche a cogliere la portata, il carattere umano, essenziale, di quell’avvenimento?

L’Italia, in quella sciagurata occasione, mostrò esemplarmente i tratti caratteristici della sua classe dirigente: da un lato proclama di “continuare la guerra” per non inimicarsi gli ex amici tedeschi, ma dall’altro, segretamente, tratta l’armistizio con gli alleati (il solito trasformismo all’italiana: Franza o Spagna purché se magna).
Questa estrogenata conoscenza, esclusivamente analitica ed oggettiva, non ha quindi un senso profondo, non è utile – e non nel senso dell’utilità quantificabile, mercificabile, a cui oggi ogni cosa è ridotta -.
Non serve perché non aiuta a comprendere quella dimensione umana, sottilissima e “quasi immobile”, “quasi fuori dal tempo”, della “lunga durata”. Quella delle “profondità” marine, dei “ritorni insistenti”,  evocata da un altro illustre storico dei Les Annales, Braudel.

All’analisi oggettiva ma comunque parziale, è quindi preferibile una sintesi altrettanto limitata (per Michelstaedter infatti: “se “oggettività” vuol dire “oggettività”, veder oggettivamente o non ha senso perché deve aver un soggetto o è l’estrema coscienza di chi è uno colle cose, ha in sé tutte le cose”). Persino approssimativa ma non artefatta, costruita a tavolino, persa nei rivoli e nelle quisquilie del dato e dell’”ultima” fonte documentale.

Perché la sintesi, col suo fisiologico a posteriori didascalico, anche in virtù di quel carattere approssimativo, soggettivo, è tuttavia più autentica, vera e viva, rispetto al suo contraltare modale analitico. Quest’approssimazione, quest’imprecisione che è anzitutto un’imprecisione dell’uomo, rimane quindi la massima consapevolezza possibile, il punto più vicino a cui possiamo tendere verso un’impossibile totale conoscenza, ché non vi è nulla di certo e assoluto nello studio di una variabile come l’uomo, in tutte le sue polisemantiche declinazioni. Perché la sola forma apollinea, senza il divenente dionisiaco, non porta ad alcuna con-prensione della discriminante antropica.
La “scienza degli uomini nel tempo”, per dirla nuovamente con Bloch, potrà anche essere una scienza, ma nel suo essere "scienza" rimane tuttavia una scienza umana, non scientifica, non oggettivante, qualificata e suscettibile da quell’ondivago eco, da quelle autentiche imprecisioni, che sono proprie dell’indeterminato sub-jectum che le vivifica.


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