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martedì 2 febbraio 2016

Il razzismo dall'ancien règime ad oggi

Il viaggiare per profitto viene incoraggiato; il viaggiare per sopravvivenza viene condannato
Z. Bauman

Il razzismo è diventato un argomento particolarmente spigoloso. Spesso utilizzato da chi si sente in dovere di risolvere concretamente ogni potenziale problema vomitando la bile accumulata per sollevarsi così dalle proprie frustrazioni quotidiane, o da chi sognava di condurre una ruspa da piccolo, esso sta sostituendo il calciomercato quale argomento principe nei bucolici bar sport di provincia (nei migliori si riesce a fondere persino gli argomenti… Obadì, Obadà ed il Presidente di Federcalcio si fa!). Benché se ne parli in ogni talk show, sembra che l’argomento sia diventato paradossalmente un tabù. Non se ne può parlare e tuttavia se ne parla ovunque, basta che lo si faccia però in maniera manichea, eterodiretta, da tifosi militanti.

Come ogni cosa di cui si parla troppo finisce per perdere qualsiasi senso, il razzismo, seppur velato dall’ipocrisia strisciante, sembra essere quindi solo l’ennesimo palliativo retorico per compiacere il proprio ego, o quello di un elettorato eternamente – e volutamente - minorenne (ed impaurito!). 
Eppure, lasciando la retorica a coloro che continuano ad alzare cortine fumogene solo per non dover fare i conti con una realtà che li spaventa, è persino possibile analizzare il razzismo sotto una lente d’ingrandimento etica. E così, moralmente, se si volesse esercitare un critico divertissement atto ad indicare una traccia storica dell’etica umana, si potrebbero avanzare persino ipotesi “fantasiose”, talvolta bizzarre, ma forse più capaci di entrare in sintonia con la problematica per capirne infine l’origine “ontologica”.

Nelle classi elitarie, almeno quelle preindustriali aristocratiche, non emerse mai una dialettica particolarmente violenta sulla questione razziale (nella Grecia classica se ne faceva semmai una questione di opportunità. Platone e Aristotele, ad esempio, non avevano dubbio alcuno sul fatto che i “barbari” dovessero essere schiavi proprio perché “diversi” – xenos -).
Abituata a pensare il mondo in ordini, gerarchie immutabili e preordinate, retaggi e lignaggi di emanazione divina, la nobiltà feudale dà per scontato che vi siano differenze tra uomo e uomo, tra la nobiltà e il popolo. Seppur fortemente antidemocratico, quello non era però un razzismo in senso letterale: più che alle razze esso guardava infatti agli “stati” e agli ordini della società tripartita medievale (bellatores, oratores, laboratores).


La classe nobiliare dell’ancien régime, e con essa qualsiasi altra classe che si senta apicale rispetto all’organizzazione sociale, non aveva infatti bisogno di ricorrere ad una giustificazione razziale per giustificare la propria superiorità. Per quello bastava la millenaria convinzione (mai messa davvero in serio dubbio prima del 1789) di rappresentare la legittima erede di una qualche mitologica tradizione, o il defensor fidei dell’ortodossia monoteista più alla moda (la ritualità della sacra unzione, la discendenza da Troia, dall’impero romano o dai Merovingi…). In tal senso il nobile è quindi fisiologicamente un “razzista”, anche se, paradossalmente, gli frega ben poco delle “razze”: è obbligato a vedere una profonda scala gerarchica per differenziarsi ed elevarsi  così al di sopra di ogni altro uomo e comprovare in questo modo la propria posizione elitaria, il proprio ruolo e privilegio.

Al contrario rispetto all’aristocrazia feudale, sembra invece che il razzismo emerga più ferocemente in quelle classi sociali che sentivano il bisogno di giustificare dapprima un potere nascente non ancora sedimentatosi (spesso basato sul denaro e non sui titoli ereditari) e poi per non retrocedere da quello status quo finalmente conquistato e riconosciuto socialmente. E’ il razzismo “moderno”, portato dalla borghesia professionale e mercantile che, proveniente dal “terzo stato” e risentita verso le classi privilegiate, intendeva farla pagare a caro prezzo a chiunque abbia ostacolato il loro trionfale successo (per dirla con Camus: "lo schiavo comincia col reclamare giustizia e finisce per volere la sovranità. Ha bisogno di dominare a sua volta". La miccia che accese questa rivolta morale del ressentiment viene infatti eccitata dall’”odio dell’impotenza”).

Un comportamento esclusivamente morale, o psicologico se si preferisce, ma che finisce tuttavia per produrre effetti epocali concreti. Quasi come il dis-prezzo del semplice operaio che diventa capo officina: quando il “povero di spirito” ex schiavo raggiunge una posizione di comando, tende ad esercitare quel potere sui sottoposti in maniera più violenta, ché abbisogna di giustificare una posizione tanto bramata, ma che non gli sarà mai affine (non essendo potente, non riesce nemmeno ad esercitare il potere, e si incazza della propria inadeguatezza cogli ex pari rango, ora sottomessi al suo impossibile desiderio di comando).

E così, la “positiva” e calvinista borghesia scientifica erede morale di quel risentimento dei vinti ora vincenti, quella dei diritti inalienabili, si scopre oggi ancor meno egalitaria di quanto credesse all’alba delle “gloriose rivoluzioni” (in fondo non lo è mai stata davvero, ha anzi voluto scientificamente provare la superiorità della razza bianca - pardon “caucasica”, come dicono quei “tronchi” di democratici scientifici statunitensi!- per giustificare le porcherie consumate in giro per il mondo: da Gobineau a Kipling, fino al cugino di Darwin, Galton).
La benestante middle class odierna, rifacendosi a quegli stessi valori borghesi originari, ne ha ripreso tuttavia anche i vizi, le ipocrisie e le “virtù” altruistiche: uguali sì, ma meglio se sei ariano! Se hai la pelle di un altro colore, se non guidi una fuoriserie ma ti fai accompagnare da barconi fatiscenti o da scontate utilitarie da barboni, o se a Natale non ti distrai col presepe e l’i-phnone di ultima generazione, sei un po’ meno umano e fratello. 
Ma in fondo non c’è da stupirsi se in un’epoca prettamente economica, l’homo oeconomicus, seppur sotto la maschera della fratellanza democratica e dell’ipocrita e strisciante superiorità per gli storici meriti acquisiti, difenda anzitutto l’integrità delle proprie tasche quando gli fa comodo avvertire che i suoi denari e i suoi sacrifici sono in pericolo.

Tra gl’illuminati filantropi filo-borghesi dei giorni nostri c’è poi anche il caso – non ci facciamo mancare proprio niente! – di chi ha fatto soldi coi profughi, sfruttando i già sfruttati in nome della lotta allo sfruttamento e, coerentemente, in fondo, è pure razzista! C’è chi fa i soldi coi profughi e si dice invece solidale e di sinistra. C’è chi fa i soldi coi profughi vendendo sistemi d’allarme, armi, o venendo semplicemente eletto. C’è chi fa soldi coi profughi reiterando trasmissioni televisive a non finire, con buono share e quindi migliore pubblicità retributiva… Diciamo una cosa nuova: ma ‘sti profughi che si mettono in marcia per poi pagare i malavitosi per essere trasportati, non potrebbero mettere insieme i loro risparmi e comprarsi una loro barca, arrivando davvero da uomini liberi –ed incazzati- nei luoghi da dove è iniziato tutto il loro attuale disastro?

Abbiamo sostituito un razzismo incardinato sulle superstizioni millenarie con un razzismo fondato sulla paura di perdere un benessere divenuto unica identità davvero socialmente riconosciuta e stimata. La paura d’impoverirsi, di essere derubati – dei nostri privilegi da occidentali a sfruttare in “patria” chi si trova in una posizione di necessità – vedi imprenditore benefattore – e a sfruttare, più in generale, tutte le neo-colonie terzomondiste che ci permettono di mantenere il nostro assurdo tenore di vita: la paura di perdere quella sacra uguaglianza borghese edificata esclusivamente sulle quantificazioni del dio quattrino e sullo sfruttamento dell’”inferiore” di turno.

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