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lunedì 19 gennaio 2015

La crisi edilizia e quella del portafoglio


Secondo lo studio rilasciato da Bankitalia alla Camera durante l’audizione sul decreto legge  “sblocca Italia”, il crollo del settore edilizio ha accumulato una perdita prossima al 30% tra il primo trimestre del 2008 e il secondo del 2014, contribuendo per 1,5 punti percentuali al calo del Pil (gli ultimi dati parlano di un calo del 7,9% su base annua rispetto al 2013). Visto il calo del prodotto interno lordo, dovremmo forse guardare con preoccupazione ai dati rilevati, eppure, trovo, c’è persino da rallegrarsene.
L’italiano, che vanta la maggior percentuale di possessori di abitazioni in Europa, quando si tratta della casa di proprietà, sembra comportarsi come un principe rinascimentale. 

Come un signorotto del XV secolo, infatti, l’italico ambisce soprattutto ad una castello. Sembra non avere troppa importanza che si tratti di una villa lussuosa o di una modesta casupola di campagna, l’importante è che essa sia solo sua, tutta per sé. La casa monoblocco, con corte e giardino, meglio se opportunamente recintata (più rara nel resto d’Europa), è in questo senso la materializzazione edile dello spirito profondo, radicale, che sottende l’agire del popolo italico. L’individualismo, l’autonomia anche nelle poliedriche tensioni che vanno risolvendosi nel menefreghismo di tutto ciò che è altro, prossimo, comune, pubblico, statale. Certo non esclusivamente per questo desiderio che affiora dal tempo, ma la cementificazione in Italia, secondo il rapporto del 2014 di Legambiente, procede al considerevole ritmo di 500 chilometri quadrati all’anno. 
E procede speditamente benché si sia già costruito troppo, cementificando anche laddove era meglio lasciare forse il campo alla natura (le alluvioni di Genova, del Veneto, del grossetano, della Garfagnana, ecc…, al netto degli appelli e delle lacrime di coccodrillo istituzionali, ne sono un’evidente conseguenza). E’ vero, il troppo quale unità di misura, negli affari e in economia, o se si preferisce nell’astrazione matematica sua ancella, non esiste. 

crisi del mattone edilizia

Eppure le abitazioni non occupate risultano pari ad oltre il 20%, e possiamo inoltre vantare uno stock abitativo più che doppio rispetto al fabbisogno (nonostante le invasioni di migranti: l’Italia è ancora un paese d’emigrazione e non, come qualcuno strilla in continuazione, di immigrazione). Da questo punto di vista la “crisi del mattone” non esiste, non è una crisi autentica, dacché abbiamo già quel che ci serve: una casa in cui ripararci ed abitare, ad esempio.
La crisi, semmai volessimo anche scherzarla, non è infatti dell’edilizia in senso stretto. Essa è piuttosto nel dominus Pil che ne misura la rilevanza e nel numero di lavoratori impiegati in quel settore. Tuttavia, prima o poi, dovremo anche decidere come spendere le nostre vite, scegliendo magari a quale “indicatore” votare il nostro senso esistenziale. Se al Pil appunto, quello che però è incapace di misurare il benessere, come già il liberal democratico Kennedy sosteneva (è noto, ormai, che le guerre, ma anche i terremoti e le alluvioni, facciano aumentare il Pil, eppure a questa dilatazione numerica non corrisponde anche un  vero aumento di “ricchezza”, di “benessere”), oppure al genuino buonsenso. Quel buonsenso dei semplici, frugale, contadino, che non consuma più di quel che ha bisogno per vivere. 

E forse proprio in questo sta anche la causa della crisi edilizia, e di ogni crisi economica più in generale. Essa, a ben vedere, è anzitutto una crisi individuale, di valori, di senso. Noi, ormai, tutti tronfi nel nostro ipertrofismo di prodotti, non ci accontentiamo più di vivere. O meglio ci qualifichiamo viventi solo perché anche consumatori. 
E dobbiamo stupidamente continuare a fare i tubi digerenti per sostanziarci in quanto “uomini”, a consumare per produrre, a consumare per continuare a lavorare, a consumare per vivere. Insomma, a non vivere.

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