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martedì 17 maggio 2016

Orwell, il grande fratello e l'uomo fotomodello

Ciò che le masse pensano o non pensano incontra la massima indifferenza. A loro può essere garantita la libertà intellettuale proprio perché non hanno intelletto
G. Orwell

L’uomo contemporaneo, stemperato dalla liquidità insapore del postmoderno, sembra vivere una cosmica solitudine senza fine. Come l'individuo massificato dei tableaux parisiens che "non sa popolare la propria solitudine e non sa di essere solo nemmeno in mezzo alla folla", anche l'essere spettrale delle brume e delle caligini coeve non riesce a ritagliarsi uno spazio in cui alleggerirsi della propria fisiologica solitudine.

Un isolamento che si nota, in una sorta di l curiosa legge del contrappasso, proprio da come gli uomini stanno in compagnia: ebbri, esagerati, nevrotici, impostati, patinati, estrogenati, siliconati. Lo si vede anche dalla smania compulsiva di postare sui social esperienze che dovrebbero rimanere proprie, essere gustate intimamente, dalla sfrontata e impudica volontà di mostrare ogni centimetro della propria vita privata per ottenere una qualche eterea approvazione, una condivisione, to likeDallo sterile tentativo di demandare proprio alla piattaforma virtuale i propri segreti interiori, i propri pensieri più autentici (meglio se sotto le spoglie di citazioni autorevoli), nella vana speranza che qualcuno v’inciampi e magari comprenda.
Lo si può osservare soprattutto dalla necessità, forse mai così in voga nella storia dell’umanità, di latente determinismo.

grande fratello

Credere infatti che tutto sia preordinato, che ogni cosa risponda ad un ordine già aprioristicamente determinato, stabilito, significa anche affermare che la propria esistenza non vale nulla, che il proprio ruolo nel mondo è ridotto a mefitica figurina, remissivo spettatore di uno spettacolo inscenato da comparse e burattini.
Il motivo che presuppone ogni passiva voglia di determinazione è presto scoperto: la giustificazione di un'impotenza che non vuole assumersi alcuna responsabilità individuale - se tutto è già determinato, io non c’entro niente, e tutto sarà facile! -.
Eppure da questo fatalismo dei deboli possono nascere persino fenomeni bizzarri, talvolta lontanissimi tra loro: dal complottismo a colazione alla noluntas sentimentale. Può sembrare strano, ma questo stesso determinismo ha creato contemporanea-mente una sorta di Grande Fratello 2.0, ove ognuno desidera essere sorvegliato pur di farsi guardare da qualche potenziale ammiratore, meglio se “stalkerante” e indiscreto.

E’ l’inversione coatta dei significati, come già raccontato in 1984 di Orwell: “la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza”.o meglio ancora, trattasi del fenomeno dell'"inversione della vita", indicato quale colante per la società dello spettacolo di Guy Debord. 
Un rovesciamento mistificatorio che oggi, trascinato e sospinto dalla miope convinzione che davvero “lo spettacolo sia reale, ha però assunto sembianze e conformazioni abominevoli: accetto volentieri di essere controllato dal Grande Fratello perché intanto mi fa anche compagnia, perché, in fondo, guardandomi, mi fa sentire meno solo, meno isolato e meno abbandonato a me stesso.

Incapace di bastarsi in quanto singolo, quest’”uomo fotomodello” cerca attenzione anche dal proprio carceriere. 
La Sindrome di Stoccolma reificata ad unica panacea affettiva per la propria fisiologica solitudine. Siamo al paradosso della sottomissione volontaria per mancanza di altre possibilità: meglio il Grande Fratello, meglio una suadente prigione, meglio il Panotticon di benthamiana memoria, ad un’esistenza autonoma, singolare, libera, sola.

6 commenti:

http://www.ideabiografica.com ha detto...

buongiorno. Mi permetto di presentarVi un libro che, in stile narrativo e apocalittico, affronta il problema dei poteri forti, della corruzione e della slealtà... ma anche molto altro... il controllo supremo dei poteri forti e il grande plagio di massa... sempre di grande attualità. grazie dello spazio che mi concedete---:::)) Andrea Di Cesare

REGGAE BANG BANG

Presentazione di Silvia Petrone

Idealmente accompagnata dai suoni sofisticati ma brutali del reggae, di partiture elettroniche e gregoriane, di sonorità etniche e religiose, prende corpo la descrizione di un suburbio freddo e distante (ma sempre amato), in cui si muove Corrado, l’eroe del romanzo, nella sua evoluzione frenetica e complessa, che lo conduce a sorpresa verso un epilogo imprevisto.

“Adesso che sono entrato nelle magioni di Corso Venezia e Piazza San Babila, rimpiango le notti passate al bar con egiziani armati e trans fatti di coca, era gente più onesta. Qui, tra queste mura iper-eleganti, segretarie evanescenti con accento dell’Est, corridoi che conducono al cuore del Potere di M., dove tutto sembra a posto e ben stirato, non mi sento affatto sicuro.”

Mentre raccoglie i cocci di una esistenza rabbiosa e di protesta verso se stesso e verso il Sistema costituito, Corrado incontra casualmente Marina, La Dea, che - muovendosi sinuosa come un serpente - lo inizia alle arti marziali e al sesso tantrico. E’ sempre più difficile per lui condurre un’esistenza normale, tra loschi figuri di periferia, un amico di infanzia che a 50 anni fa ancora a botte con bande marocchine, ed un animo sensibile che si pone mille interrogativi, faticando a perdonarsi gli sbagli del passato

“Mi rendo conto di essere un oggetto complesso, che prima di avvicinarmi, bisogna leggere le istruzioni per l’uso, solo che le istruzioni, sono scritte in ebraico …”.

La lunga frequentazione di uno studio psicoanalitico, giustifica questa affermazione di Corrado che, in ultimo, prende le distanze dal suo analista, e prosegue la strada da solo, in una vicenda che esamina il rapporto dell’Uomo contemporaneo con la Tecnologia, i Poteri Forti, il senso di lealtà e il Terziario, sostenuta dal leitmotiv di un vecchio volo in parete, risalente alle sue giovanili esperienze alpinistiche, che diventa il Simbolo di una ricerca, di uno scampato pericolo, attraverso le tinte del Rosa e dell’Ambra (le tinte del pre-morte), che avrebbero percorso l’intera esistenza di Corrado.

Insieme a lui attraversiamo l’abisso e ne usciamo, a fatica, sospinti dall’amore per la vita e dal cinismo disincantato di molte situazioni borderline. La storia di Corrado si dipana per vicoli bui, incontri di boxe truccati e traffici clandestini. Non è la vita di tutti noi, ma in lui ritroviamo debolezze e punti di forza che ciascuno può sentire come propri.

Impossibile circoscrivere “Reggae Bang Bang” in un preciso genere letterario, poiché esso rappresenta ora un road movie di fine costruzione, ora un romanzo introspettivo e di potente maturazione, ora uno spaccato crudele della collettività contemporanea.

“Chi possiede un cuore, rischia più degli altri, oggigiorno. Non è una società che ammetta di avere un cuore. Nei rapporti sociali, vale la regola messa in giro dai rotocalchi femminili e maschili – organi informativi dei Poteri Forti – che vincono le persone di successo, e per avere successo si debbono mettere da parte i sentimenti”.

La sensazione è quella di incrociare un uomo perbene travolto da un potente flusso di coscienza, che riporta a galla vecchie emozioni in cui, parallelamente al cammino del lettore, crescono l’importanza e lo spessore della storia. Alla fine piangiamo con lui e soffriamo per le sue disavventure, come se Corrado fosse un amico, un amante, un fratello, e siamo al suo fianco fino all’ultima pagina, sperando nel lieto fine della storia.

Silvia Petrone
http://www.ideabiografica.com/nuovosito/gallery/prodotto/reggae-bang-bang/

Unknown ha detto...

Buongiorno Marco. La condizione esistenziale dell'uomo dolo che si mostra forte. L'uomo che ha un nemico riconoscibile e una identità garantita dalle tipologie standardizzate.
In qualche modo mi ricorda l'addestramento al call center.
Ognuno è inquadrabile e riconoscibilepagine e dietro le prime parole puoi sapere chi è e come reagisce.
Allora mi riusciva bene,oggi no!
Ma vedo che c'è una tendenza crescente a crearsi una personalità ben definita in rete. Semplice, standard, approvabile. Anche il target dei contestatori ha perfettamente quel che lo contraddistingue e cerca di non scostarsi mai dai parametri predefiniti.
La colpa è una incoerenza ideale...
Forse sono andato fuori tema

Unknown ha detto...

Buongiorno Marco. La condizione esistenziale dell'uomo dolo che si mostra forte. L'uomo che ha un nemico riconoscibile e una identità garantita dalle tipologie standardizzate.
In qualche modo mi ricorda l'addestramento al call center.
Ognuno è inquadrabile e riconoscibilepagine e dietro le prime parole puoi sapere chi è e come reagisce.
Allora mi riusciva bene,oggi no!
Ma vedo che c'è una tendenza crescente a crearsi una personalità ben definita in rete. Semplice, standard, approvabile. Anche il target dei contestatori ha perfettamente quel che lo contraddistingue e cerca di non scostarsi mai dai parametri predefiniti.
La colpa è una incoerenza ideale...
Forse sono andato fuori tema

lostilelibero ha detto...

Un saluto Oreste. Mi costringi all'ermeneutica, ma è un esercizio che faccio sempre con piacere, laddove c'è qualcosa su cui ragionare.
Tento, per quanto blandamente, di scomporre in due parti la tua "azione creatrice".
Primo: chi vive del nemico ha bisogno di mantenerlo in vita per darsi un'identità o per continuare a darsela a bere (l'addestramento al call center, o l'uomo del, è davvero buona, se non è coperta da copyright/write me la rivendo).
Secondo: la rete, almeno a mio avviso, ricalca un po' la società in cui ci muoviamo. Con un distinguo fondamentale, trovo: mancano i contatti umani che rendono le cose più difficoltose ma vive, serie, autentiche. In rete è tutto più facile, meno doloroso e faticoso. Anche il darsi un'identita ben riconoscibile, standard, ma fittizia (manca sempre la controprova...tanto non ci si conosce in rete... è questo che piace e su cui si può affabulare, farsi film, seghe e controseghe, etc...). Ma quello sarebbe un marchio, un prodotto di mercato, più che un'identità che pre-pone un essere vivente.La rete ne è piena, di questi uomini a una dimensione, per dirla con Marcuse. Ti lascio con un suo breve stralcio a sostegno delle tue ultime considerazioni: "il potere assimilante della società svuota la dimensione artistica, assorbendone i contenuti antagonistici. Nel regno della cultura il nuovo totalitarismo si manifesta precisamente in un pluralismo armonioso, dove le opere e le verità più contraddittorie coesistono pacificamente in un mare di indifferenza".
Incoerenza ideale? Mi piacerebbe saperne di più...

Unknown ha detto...

Ciao Marco.
Mi scuso per i tempi di risposta. Mi stavo perdendo anche il commento. Non mi è arrivata la notifica.

Leggo ora alcuni errori.
Scrivo spesso con il cellulare, ma evidentemente mi perdo pezzi.

Non posso essere oggetto di copyright/write in quello che scrivo.
Ciò che scrivo e penso ormai è libero e disponibile. Rifacendomi al pensiero vivo e morto: se non lo lasciassi andare a correre per il mondo, il pensiero (e le parole che lo trasportano) morirebbero :-)

Direi di si! Il nemico è funzionale, la contrapposizione, come le carte che compongono i castelli. Una opposta all'altra si sorreggono a vicenda. (diciamo che ho rubacchiato e rielaborato alcuni motivi del nostro amico Nietzsche).
Sul secondo punto concordo quasi appieno.
"La colpa è una incoerenza ideale." forse l'ho scritto frettolosamente.
Girando lungo le polemiche della rete, mi sono fatto l'idea di una "coerenza", o, più precisamente una "idea di coerenza" che sfugge alla concretezza. L'incoerenza diventa una colpa per l'avversario e un limite per chi dialoga e argomenta. Irrigidendo e semplificando le varie posizioni, istituzionalizzandole, si crea una fase di stallo in cui, uno strano senso di colpa e frustrazione alimenta l'odio e la rabbia.
In fondo il caffè non verrebbe su, per quelle persone che considerano solo l'acqua e non la pressione, dovuta all'aumento della temperatura, e soprattutto il tubicino del filtro. ci potrebbe essere un litigio. Qualcuno potrebbe pensare che non è l'acqua a salire, ma il semplice vapore acqueo, perché logicamente e coerentemente ciò è quello che accade in fisica. Dunque il caffè non dovrebbe salire. Qualche altra persona potrebbe affermare che la fisica è errata, che ci stanno raccontando un sacco di bugie... L'acqua riesce a salire perché in realtà è più leggera del vapore.
In realtà (o così, con un amico ingegnere, speculavamo sull'arcano meccanismo ai tempi dell'università) la caffettiera funziona in quanto la pressione nella caldaia, preme in basso l'acqua, e viene indirizzata nella canaletta del filtro (quel tubicino che finisce a forma di imbuto dove di inserisce il filtro in cui viene messo il caffè in polvere).
ritornando ai nostri contrapposti "amici", nessuno si sposta dalla logica e coerenza delle proprie affermazioni, vedendo ogni cedimento come una colpa e l'illogica incoerenza dell'altro come malafede o stupidità. In ogni caso tutto diventa un rimpallarsi la colpa nell'irrigidimento di posizioni ideali e ideologiche.
spero di aver spiegato meglio, perché nella mia testa è tutto (confusamente) chiaro.

A presto

lostilelibero ha detto...

“Incoerenza ideale” mi sembrava una perifrasi croccante, quei guizzi in cui puoi subodorare che c’è qualcosa di più pungente e profondo dietro. In rete fanno le pulci ad ogni cosa, ma mai a sé stessi. A me ricorda, vagamente, la sterile e nullifera retorica politica odierna (ma senza sofismi eccessiva-mente cervellotici, per quelli servono anche qualità). Innanzitutto, a mio avviso, manca la voglia di ascoltare e di capire le posizioni dell’altro, indispensabile collante dialettico per poter palleggiare con le idee. Il resto è conseguenza di questa mancanza, e probabilmente non solo di questa: difendere strenuamente una posizione perché si possiede solo quella – o si ha l’illusione di possederla, il che è lo stesso -, il solo argomentare è anzi visto come indietreggiamento dall’assoluta sicurezza. I dubbi, del resto, non piacciono mai (se ne comprendessero davvero il funzionamento, rischierebbero di trovarsi con un pugno di mosche). Non ricordo chi lo disse, forse Maccari: in Italia esistono due tipi di fascisti, i fascisti propriamente detti e gli antifascisti. Ecco, il “coerentone” è un po’ così, trovo... siccome conosce solo una posizione (ad angolo retto?, applica questo suo logos-pensiero anche agli altri. Per cui ogni persona che pensi, che si ponga domande in grado di mettere in discussione anzitutto sé stessa, è vista come un qualcosa che turba la quiete: malafede, stupidità, sono solo i nomi che danno alla paura di dover ragionare sull’assoluta posizione acquisita, forse.
La coerenza per chi non ha un porto sicuro in cui mettersi però in discussione è solo, a mio avviso, un limite e un riparo rassicurante il proprio unico, ma ben piantato, neurone, o ideale se preferisci.
Un saluto